Avere vent’anni: aprile 1997

THEATRE OF TRAGEDY – A Rose for the Dead

Trainspotting: Il fatto che A Rose for the Dead compia vent’anni mi prende parecchio a male, molto di più di quanto accada di solito quando un disco a me molto caro arriva al doppio decennio. In sé l’EP non è nulla di cui valga parlare, se non fosse per la meravigliosa titletrack di apertura, un perfetto trait d’union tra Velvet Darkness They Fear ed Aegis, i due capolavori dei Theatre of Tragedy; però mi prende così a male perché associo questo EP (così come pure il precedente Velvet Darkness) a un periodo della mia vita che non tornerà più, perché difficilmente potrei prendere sul serio una roba del genere come facevo quando ero adolescente. Ma non solo: si sta parlando di un tipo di musica che poteva essere credibile solo a fine anni novanta, quando, da un lato, si era creato un equilibrio per cui la sospensione d’incredulità era diventata necessaria per approcciarsi a quasi tutto l’heavy metal e, dall’altro, si era in grado di insistere su certe corde senza scadere nel grottesco e nella retorica da gothic lolita. Per tutto questo, A Rose for the Dead è il simbolo di un’epoca che non tornerà mai più. Io ricordo un tempo ormai lontano in cui il cantato beauty and the beast era un serio argomento di discussione. E a chi ora ne parla con tono sprezzante dico: voi non c’eravate.

SADIST – Crust

Edoardo Giardina: Above the Light e Tribe saranno pure formalmente migliori, ma ai miei occhi Crust ha sempre ricoperto un posto d’onore nella discografia dei Sadist. Innanzitutto ha dato vita, in modo del tutto apprezzabile, ad una rinnovata parentesi della loro discografia. Nonostante nei suoni risultasse più sporco e meno curato, nei fatti lo stile si era modernizzato. Che li si apprezzi o meno, il groove à la Pantera spopolava da almeno un lustro e il nu metal dei Korn stava avendo i suoi effetti su molti gruppi. È vero, ciò portò anche Max Cavalera a pubblicare Roots prima e a formare i Soulfly poi, ma questa è un’altra storia (triste). Crust quantomeno ha dalla sua che riesce a rimanere progressive e tecnico, death e groove, ricercato e violento, e il missaggio caotico aggiunge involontariamente un’altra freccia al suo arco. Certo, poi i Sadist non si diedero una regolata e chiusero la parentesi con quell’oscenità di Lego, ma questa è un’ennesima storia triste – per fortuna terminata e dimenticata.

DARK TRANQUILLITY – The Mind’s I

Trainspotting: The Mind’s I è meglio di The Gallery. Questa è la mia tesi, orgogliosamente sostenuta nella mia personale disputa con Ciccio su quale dei due dischi sia migliore; disputa che va avanti dall’anno 2001, facendo due calcoli. Mi verrà quindi molto facile spiegare il perché, visto che sono allenato: The Mind’s I è un disco più compiuto di The Gallery, che a mio modo di vedere è più un insieme di canzoni slegate fra loro, nonché tutto basato su quei tre cavalli di battaglia. Con The Mind’s I è come se avessero raccolto le idee, dopo aver pensato di aver fatto il passo più lungo della gamba; e che quindi hanno sì continuato ad evolversi, ma in un modo più ragionato e lavorando molto sulle proprie radici, valorizzandole. Per cui questo disco non è un passo indietro, come dissero in molti all’epoca, ma è un passo avanti in una diversa direzione; come del resto sarà il successivo Projector, forse quello tra i tre citati ad aver sofferto di più il passare del tempo. The Mind’s I ha un suono più rozzo e delle soluzioni in apparenza meno raffinate, ma è a mio parere più complesso da un punto di vista strutturale, oltre che più ostico nell’assimilazione. Poi comunque oh, a me prende meglio, e Hedon è forse la mia canzone preferita dei Dark Tranquillity.

MITHOTYN – In the Sign of the Ravens

Ciccio Russo: All’epoca, per quanto le riviste lo avessero pompato, In the Sign of the Ravens non mi fece una grande impressione. Il paragone con altri vati di Odino come Falkenbach e Einherjer era abbastanza impietoso. E poi, insomma, quello stesso mese era uscito Eld. Infatti avevo finito per rivendermelo, cosa di cui – per farvi comprendere a quali livelli sia giunto il mio degrado sinaptico – mi sono reso conto solo ora, cercandolo nella mia collezione di dischi. Recuperatolo sul tubo, confermo che l’esordio dei Mithotyn non era ‘sto granché. Viking metal all’acqua di rose, mid-tempo, cori evocativi con voce pulita, un discreto gusto per la melodia che non è sufficiente a salvare pezzi mosci e ripetitivi. La doppietta iniziale costituita da Upon Raging Waves e dalla title-track merita pure ma l’album si affloscia subito e l’unico vago sussulto è un canto tradizionale dei pescatori piazzato a metà scaletta che avevo mandato a memoria perché mi faceva ridere (a un certo punto sembra napoletano, giuro) e con il quale, qualche anno più tardi, avrei tentato di impressionare le Erasmus di Stoccolma, senza mai risultati apprezzabili. Gli svedesi avrebbero fatto meglio con il successivo King of the Distant Forest. Si sciolsero dopo appena un altro lp per divergenze musicali. Il batterista e uno dei chitarristi fondarono i notevoli Falconer, autori di alcuni ottimi dischi di power metal epico (splendido il secondo Chapters from a Vale Forlorn). L’altro chitarrista diede vita ai King of Asgard.

DEPECHE MODE – Ultra

Trainspotting: Disco della madonna comprato praticamente per sbaglio e invece rivelatosi una benedizione divina nonostante in quel periodo avessi sedici anni e stessi in fissa con Back From the Dead degli Obituary e il black stupramadonne. In questo album ci sono dei pezzi fantastici come Barrel of a Gun, Useless e It’s No Good che non sono mai riusciti a stufarmi neanche dopo averli sentiti, oltre che dal mio stereo, anche da televisione, radio, pubblicità e praticamente ovunque tranne forse che dal forno a microonde. Prima di questo album i Depeche Mode si erano praticamente sciolti a causa dei problemi di droga del cantante, e con Ultra si rilanciarono in maniera del tutto inaspettata, costruendosi una nuova credibilità sia con i vecchi fan, che ne riconobbero la maturità, sia con la folta schiera di ascoltatori occasionali, che poi sono quelli che per la maggior parte affollano i loro attuali concerti. Non ho mai sentito nessuno parlare male di questo disco.

ATROCITY – Werk 80

Ciccio Russo: Dopo un paio di buoni dischi death metal, gli Atrocity scoprirono il magico mondo goticone dei ritornelli da discoteca dark e delle ciacione fasciate di latex, prima in modo cauto con Blut, poi sbracando definitivamente con l’ep del ’95 Calling the Rain, che battezza il sodalizio tra il fondatore Alex Krull e il nuovo chitarrista Thorsten Bauer, con il quale trasformerà gli Atrocity nello stereotipo vivente del gruppo crucco cafone per ragazzini di bocca buona che suona al Wacken alle sedici e trenta. I due pensarono che sarebbe stata davvero un’idea spettacolare pubblicare un disco di cover di successi synth pop anni ’80, tipo Shout e Wild Boys, con le chitarre distorte. Il risultato è stupido, inutile e, riascoltato oggi, pure fastidioso. Eppure Werk 80 il suo posticino nella storia del metal ce l’ha: da quel momento tutti iniziarono a incidere cover di successi synth pop anni ’80, preferibilmente i Depeche Mode. Del resto bisognava mettersi davvero di buzzo buono per fare peggio di Werk 80, epitome del peculiare e inconfondibile cattivo gusto germanico applicato alla musica. Da cosa nacque cosa, e qualche anno dopo parecchi gruppi storici, dai Paradise Lost ai Nightfall, si sarebbero buttati su sperimentazioni fin troppo ardite. Cialtroni come me e Charles, come ovvio, ci cascarono con tutti i piedi e iniziarono a recuperare con entusiasmo roba come gli Spandau Ballet e i Talk Talk.

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