Avere vent’anni: OBITUARY – Back From The Dead

Quinto e ultimo lavoro degli Obituary prima dello scioglimento, per chi scrive Back From The Dead è anche il loro migliore. Sarà forse per motivi affettivi, dato che l’ho comprato la settimana dopo l’uscita nei negozi, ma negli ultimi vent’anni penso di essere arrivato quasi a consumarlo: Back From The Dead fa parte di quel ristrettissimo insieme di dischi che a un certo punto sono stato costretto a masterizzare per non dover infierire sempre sullo stesso cd e poi rischiare di doverlo ricomprare, come successe a Ciccio con Reign In Blood.

Se le idee platoniche fossero realtà tangibili, Back From The Dead rappresenterebbe l’INCAZZO. Me lo immagino a galleggiare nell’iperuranio, in forma sferica, nero come il risentimento, che se lo stuzzichi con un bastoncino ti schizza sangue nero in faccia con la voce di John Tardy che fa UH!. L’idealizzazione di BFTD non dipende solo dal suo essere un distillato purissimo di odio e voglia di prendere la gente a testate sui denti, ma ha anche una più prosaica ragione stilistica, ovvero la difficoltà oggettiva di inquadrare gli Obituary in un genere specifico. Il quintetto di Tampa è da sempre associato al death metal, e con esso condivide tematiche, estetica, attitudine e financo l’origine floridiana; ma se li si ascoltasse per la prima volta, senza alcuna informazione preliminare, probabilmente più che al death metal penseremmo ad una versione riveduta e corretta dei Celtic Frost. Anzi, diciamo quattro parti di Celtic Frost e una parte di Slayer, ché gli Slayer c’entrano sempre. E Back From The Dead è il più celticfrostiano della prima parte della loro discografia (di quella post-reunion non saprei perché non ho approfondito): è il più lento, il più groovy, il più minimale, e credo anche quello col maggior numero di UH!. A tal proposito bisognerebbe riascoltare i primi cinque dischi degli Obituary e contare tutti gli UH! di John Tardy. Anzi, faccio la proposta ufficiale che la prossima serata-sfascio di redazione venga dedicata a codesta nobile attività. Noi sì che sappiamo divertirci, amici del vero metal, e la gente normale come al solito suca fortissimo. 

Back From The Dead rappresenta, almeno per me, il canto del cigno di un gruppo unico, stilisticamente e concettualmente, che si congedò dalle scene con la strafottenza di chi è cosciente della propria unicità; e l’album in questione ne cristallizza lo stile rendendolo immortale. Mentre in quel periodo i gruppi death storici sofisticavano, impreziosivano o comunque diversificavano il proprio suono (si pensi a Morbid Angel, Deicide, Cannibal Corpse, o gli stessi Death), gli Obituary lo scarnificavano fino all’essenziale, portando il riff in primo piano. Le dieci tracce tendono ad essere tutte abbastanza uniformi, a parte la prima Threatening Skies, bordata thrashettona di un paio di minuti, e la titletrack posta in chiusura, lenta, claustrofobica e marcia come il risentimento che cova e ribolle. In qualche modo si differenzia anche Inverted, nella quale le influenze slayeriane si fanno più evidenti. I restanti pezzi sono una sequela ininterrotta di riffoni che pompano in maniera devastante, con la batteria di Donald Tardy che spinge sul groove mentre suo fratello impreziosisce il tutto con il suo delicatissimo timbro vocale a metà tra lo screaming e un conato di vomito. Pochissimi hanno mai saputo interpretare come John Tardy questo tipo di disagio nauseato verso l’altro da sé. L’unico modo di rendere le linee vocali di quest’album ancora più marce sarebbe stato direttamente mettere uno zombi dietro al microfono; ma anche in quel caso, forse, avrei continuato a preferire John Tardy. Per quel che mi riguarda, uno dei dieci dischi estremi migliori quantomeno degli anni novanta.  (barg)

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