I Soviet Soviet, l’America di Trump e il Giornalista Collettivo
La legislazione statunitense in materia di immigrazione è particolarmente articolata, in special modo per quanto riguarda i musicisti non americani che intendono esibirsi negli USA. Articolata non significa oscura, ermetica o fraintendibile. Articolata significa semplicemente complessa, come complessa è la gran parte delle vicende legate all’estrinsecazione burocratica di un potere statale.
Questo intricato apparato qualche giorno fa è entrato in rotta di collisione con un ameno gruppo post-punk pesarese, i Soviet Soviet, e con quell’individuo amorfo che chiameremo per comodità il Giornalista Collettivo. Ne è scaturito un generale effluvio di indignazione, sgomento e ricostruzioni più o meno fantasiose che, nel migliore dei casi, hanno stravolto la realtà.
Proviamo quindi a mettere un po’ d’ordine.
Per suonare negli Stati Uniti, un artista ha bisogno di un visto lavorativo.
Sempre? No.
Per partecipare a titolo gratuito ad eventi showcase, dove l’artista si limita a presentare la propria musica con fini puramente promozionali, è possibile usufruire del Visa Waiver Program, cioè del viaggio senza visto. Qualora intenda viaggiare con il Visa Waiver Program, il musicista è tenuto a richiedere un’autorizzazione elettronica, la c.d. ESTA (Electronic System for Travel Authorization), immediatamente prima di salire a bordo del mezzo di trasporto, aereo o navale, diretto verso gli Stati Uniti. L’ESTA è rilasciata online dall’autorità statunitense, previo pagamento di una tassa di 14 dollari, e autorizza il soggetto che la ottiene a rimanere negli USA per un massimo di 90 giorni.
Negli altri casi l’artista ha bisogno di un visto lavorativo, che può essere di tipo O oppure di tipo P a seconda della sezione del United States Code (la raccolta e codifica delle leggi federali degli Stati Uniti d’America) che meglio si addice alla tipologia di richiedente. Le varie categorie di soggetti e le relative caratteristiche sono facilmente consultabili nell’apposita sezione del sito del Dipartimento di Stato americano.
Necessitano del visto di tipo O (inserito all’interno del United States Code dall’Immigration Act del 1990) coloro i quali abbiano dimostrato, a livello nazionale e internazionale, “extraordinary ability or achievement in the sciences, arts, education, business, athletics”: si tratta quindi di una sorta di riconoscimento all’eccellenza e alla comprovata straordinarietà del loro lavoro. In particolare, il visto O-1B è riservato agli artisti solisti e il visto O-2 a chi accompagna i soggetti in possesso del visto O-1 per assisterli durante l’esibizione, come per esempio i musicisti di supporto.
Il visto di tipo P (inserito all’interno del United States Code dall’Immigration and Nationality Act del 1965) è invece riconosciuto ad artisti o sportivi di fama internazionale. Nello specifico, il visto P-3 viene essenzialmente riservato ai musicisti folk o comunque a quegli artisti la cui performance sia caratterizzata da un contenuto etnico e/o tradizionale, mentre il visto P-1 spetta ad atleti o squadre impegnate in determinate manifestazioni sportive oppure a membri di gruppi che intendano esibirsi sul suolo statunitense. È quest’ultimo il tipo di visto che le band non americane devono solitamente richiedere per poter andare in tour negli USA. Ai fini del suo ottenimento occorre che l’artista presenti la documentazione comprovante, tra l’altro, l’aver ottenuto un acclarato responso internazionale e l’aver percepito un compenso per la propria attività artistica, unitamente alla classica lettera di presentazione dello sponsor d’oltreoceano.
Il visto P-1 costa 190 dollari per un singolo artista e svariate migliaia di dollari per una band, a seconda della caratura. La sua concessione richiede un’attesa di almeno tre mesi.
Ed eccoci finalmente alla grottesca vicenda che ha visto coinvolti, loro malgrado, i Soviet Soviet. La settimana scorsa i nostri tre connazionali, quassù ritratti in posa da veri Manowar, hanno pensato bene di presentarsi alla frontiera americana muniti della sola autorizzazione ESTA. Il loro programma era di partecipare a titolo gratuito a uno dei più importanti eventi showcase del continente, il festival South By Southwest (SXSW) di Austin, e con l’occasione andare in tour per una manciata di date tra Seattle e Los Angeles.
Come raccontano loro stessi in un lungo comunicato ufficiale, sono stati fermati, interrogati, trattenuti per una notte in carcere con l’accusa di essere immigrati clandestini e poi rispediti in Italia. Guarda un po’, al controllo dei passaporti non c’erano i brigadieri della dogana di Castellamare di Stabia ma gli agenti della U.S. Customs and Border Protection, gente non troppo famosa per il senso dell’umorismo. È bastato fare uno squillo ad alcuni dei locali che avrebbero dovuto ospitare i concerti della band marchigiana perché diventasse chiaro che si trattava di show per i quali il pubblico avrebbe dovuto pagare un biglietto: un’attività lavorativa a pieno titolo, quindi, indipendentemente dal fatto che il gruppo avrebbe o meno percepito un compenso per suonare.
Ora, intendiamoci: i Soviet Soviet mi piacciono e il loro ultimo album Endless è stato uno dei pochi ascolti non metallari che hanno allietato il mio 2016. Non li conosco personalmente e non ho perciò motivo di dubitare della loro buona fede quando affermano che il tour era solo per promozione e non per guadagno. Non me la prendo col gruppo: loro, come ha scritto tra gli altri il chitarrista dei Conan commentando la faccenda, “tried to pull a fast one and failed. Not really even news”. Non me la prendo nemmeno con le loro fonti che, riporto testualmente, li avevano tranquillizzati al riguardo, ennesimo (eventuale) esempio di management alla cacio e pepe.
Io me la prendo con la furibonda reazione del Giornalista Collettivo davanti a questa serie di sfortunati eventi. Il Giornalista Collettivo scrive su Repubblica, sciopera contro la violenza di genere e condivide i post di Roberto Saviano. Il Giornalista Collettivo si indigna ma non approfondisce, perché approfondire costa studio e fatica, e il Giornalista Collettivo schifa sinceramente sia l’uno che l’altra, troppo impegnato com’è ad arrivare in tempo all’apericena liberaldemocratica. Il Giornalista Collettivo sa a priori chi è il buono e chi il cattivo, e non ha bisogno di argomenti per supportare la propria posizione. Il Giornalista collettivo la pensa come Hegel: se i fatti contraddicono le sue teorie, allora tanto peggio per i fatti.
In questa situazione il Giornalista Collettivo ha subito solidarizzato con i Soviet Soviet, stracciandosi le vesti e usando toni millenaristici di fronte a quello che magari gli appare come un rigurgito di maccartismo dovuto al nome della band. Il Giornalista Collettivo non viene proprio sfiorato dal pensiero che i Soviet Soviet possano essere stati bloccati e rimpatriati per aver maldestramente tentato di aggirare una normativa in vigore da decenni, di cui lui probabilmente ignora l’esistenza. No, la ferma, assoluta, ideologica convinzione del Giornalista Collettivo è che la colpa di tutto ‘sto papocchio sia di un nuovo spettro che si aggira per il mondo: l’America di Trump.
Grazie. Null’altro.
Qui, malgrado la forma e gli argomenti trattati, c’è informazione dannatamente ben fatta.
grazie
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Al giorno d’oggi se non spari a zero su Trump non sei nessuno. Poco importa se si parla di una legge c’era anche durante il governo di Obama.
Come disse il buon Donald il giorno dopo gli Oscar “si sono distratti con le buste perché erano troppo impegnati a criticarmi per concentrarsi sul loro lavoro”.
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Mi è stato raccontato di una band italiana che ha provato la stessa strategia, con l’accortezza di presentarsi senza strumenti e di arrivare separatamente ai varchi dell’immigrazione: ebbene, a uno di costoro sono stati trovati addosso degli adesivi del gruppo, al che gli è stato domandato se fosse in una band che doveva andare in tour negli USA; alla risposta negativa hanno cercato su facebook il nome del gruppo, scovate le date, fermato l’individuo (e, a quel punto, anche gli altri), trattenuto tutti in una stanza e infine rimpatriati. Morale, non si scherza con la Border Police.
Come diceva giustamente il tizio dei Conan (ma sono gli stessi geni che facevano le magliette con scritto “Shoot arrow-Eat pussy”?), “not even news”.
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No, quelli mi pare fossero i Crom.
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Giusto, i Crom! Grazie.
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non centra assolutamente nulla con l’articolo.. ma la tua foto profilo, con la versione super panzuta di Matt Pike, vince tutto!!!
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Beh ma che pezzo mostruoso. MOSTRUOSO. Ti abbraccio forte.
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Tre pollici alzati!
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Per farsi notare e darsi arie da grande giornalista bisogna urlare slogan a più non posso… qui in Italia mi sembra una tecnica ricorrente adottata non solo dai giornalisti purtroppo…
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