Avere vent’anni: TOOL – Ænima

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                                             “Crepa figlio di puttana, e vai a sucare cazzi in Maryland”

Questo è quanto io e il mio amico Andrea riuscimmo a identificare come ultima frase di Message To Harry Manback dopo avere mandato il pezzo in loop per un intero pomeriggio con l’intento di trascriverne ogni singolo insulto. Internet più avanti negli anni ci avrebbe informato che ci eravamo sbagliati e i cazzi in questione in realtà dovevano essere succhiati su un aereo. Ma alla fine cambia poco, la sostanza è che eravamo entrati in quel tipo di ossessione da decodifica che è uno degli esiti possibili quando vai in fissa con i Tool. Non so se vi sia mai capitato di frequentare forum dedicati al gruppo ma vi assicuro che si tratta di un mondo del tutto particolare: cabalisti, cospirazionisti, esponenti di teorie sull’origine dell’universo prive di fondamenti scientifici, santoni vari e ammiratori dei Dream Theater. Non credo ci sia un sottogruppo che possa contare un numero maggiore di disadattati quanto i fan della band in questione e, considerando che siamo all’interno di un genere come il metallo che da sempre ha nell’asocialità dei suoi seguaci un tratto tra i più caratteristici, direi che si tratta di un risultato rilevante. La risposta al perché questo accada è tutta all’interno dei loro album ed è piuttosto semplice: nessuno fa i dischi come li fanno i Tool. Ogni album è un consapevole e calcolato universo di suggestioni. Nessun’altro arriva ad una simile maniacale di cura nel dettaglio. Nessun’altro fa dischi che lavorano contemporaneamente su una molteplicità di livelli che vanno dalla pretenziosità alla provocazione, fino alla pura presa per il culo. In sostanza nessun’altra fra le band contemporanee prova in maniera così scientifica ad offrire qualcosa che vada oltre l’essere una semplice raccolta di canzoni.

E’ un approccio presuntuoso, concettuale e intellettualoide, può anche stare sul cazzo ma che facciano (o provino a fare) un altro sport è abbastanza un dato di fatto. Una volta chiarito questo si può entrare nel merito del giusto/sbagliato, bello/brutto, mi piace/non mi piace e tutte queste faccende in qualche misura relative. Solo in qualche misura però, perché anche le le opinioni vanno tenute un minimo a freno, non è che uno può arrivare alla cena sociale di Metal Skunk e dire che i Machine Head sono meglio degli Slayer e giustificarla col semplice fatto che gli piacciono di più. Alla stessa maniera io non accetto davvero che si possano sminuire i Tool con motivazioni generiche, l’unica cosa che penso quando qualcuno mi dice che non gli piacciono (parlo di persone che ci capiscono, non del cognato di mio fratello) è che non li abbiano compresi (ossia ascoltati abbastanza e con la necessaria attenzione): perché sono un gruppo troppo enorme, hanno canzoni troppo perfette, troppo raffinate e ricche di sfumature per essere liquidati con un superficiale ‘non fa per me’. Il problema semmai è che sono un gruppo estremamente ostico, i loro album sono inconcepibili e destinati a fallire se sottoposti ad un ascolto superficiale. Alla stessa maniera una volta che ci entri dentro rappresentano un’esperienza così totalizzante che è quasi inevitabile (per brevi periodi, si spera) finire come i casi umani di cui sopra.

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Ænima è il perfetto esempio di tutto questo, un lavoro magniloquente, a tratti prolisso ma alla fine inconcepibile se non in quella forma. Non so neanche da dove cominciare talmente è grosso, la cosa più naturale sarebbe partire dalla fantomatica Arizona Bay (e vai con 57 pagine di speculazioni su songmeanings.com), per finire all’apologia delle droghe pronunciata da Bill Hicks all’inizio di Third Eye. Inevitabile andare a porsi i soliti interrogativi: ma Die Eier Von Satan che roba è? Ma Stinkfist parla veramente di quello? Dove ho già sentito la musichetta di Intermission? E’ favoloso perdersi dentro a questa miriade di puttanate ma il rischio è quello di soffermarsi solo sui giochetti e perdere di vista la enorme quantità di idee che Adam Jones riesce a tirare fuori dalla chitarra o dall’interpretazione vocale allucinante che Maynard Keenan tiene per tutta la durata del disco. Mi piacerebbe essere capace di argomentare meglio, ma davvero non ci riesco, qualsiasi cosa sarebbe riportare alla razionalità un sentire personale che con il raziocinio ha ben poco a che fare. L’unico modo che ho di spiegarla è credo che Ænima sia un album per il quale non è possibile trovare reali pietre di paragone, è un lavoro che setta un proprio standard all’interno della musica popolare e che a distanza di vent’anni risulta ancora inarrivabile. Un’ora e venti minuti di un altro mondo. (Stefano Greco)

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