INTO THE VOID 2016 @Neushoorn, Leeuwarden, 21-22 ottobre

itvQuest’anno la mia scaletta di trasferte concertistiche all’estero avrebbe previsto il Roadburn e l’Into The Grave, un festivalino estremo di due giorni a Leeuwarden, cittadina della Frisia a un paio d’ore da Amsterdam. Imprevedibili rogne di natura personale mi costrinsero a saltare entrambi gli appuntamenti. Nel vano tentativo di sbollire l’invidia suscitata dai resoconti estasiati dei sodali di ritorno da Tilburg, mi cadde nel frattempo l’occhio su questo giovane festival, giunto alla quarta edizione, un vero e proprio Roadburn in piccolo che si sarebbe svolto proprio nella sede dell’Into The Grave. Un’occasione imperdibile per recuperare, quindi: scaletta di tutto rispetto (in origine erano previsti pure gli Orange Goblin) e trasferta più che gestibile dal punto di vista tanto logistico quanto finanziario (appena 35 euro il prezzo del biglietto per entrambe le giornate).

Raggiungibile in due ore e mezza con un treno diretto dall’aeroporto di Schiphol, Leeuwarden, città natale di Escher e Mata Hari, è graziosa e a misura d’uomo. Il centro si gira a piedi con facilità, gli alloggi sono economici (ho trovato una confortevole matrimoniale uso singola a 60 sacchi a notte a 15 minuti a piedi dal festival), i coffee shop sono aperti ai forestieri (consiglio il Repelsteeltje, situato in una vecchia palazzina art nouveau di tre piani con una bella vista della città) e passeggiando per i canali incapperete in tre o quattro ottimi negozi di dischi (almeno King Kong Records vale una visita) che attenteranno seriamente alla solidità delle vostre finanze. E il Neushoorn è un’ottima struttura: sale ampie, buona acustica, abbastanza bar per non dover fare più di cinque minuti di fila. Il pubblico è composto quasi esclusivamente da olandesi. Dato che di solito all’estero vengo preso per francese e non per italiano, questa volta vengo giustamente scambiato per belga. Ma davvero sei venuto fin da Roma per questo festival? E qua l’unica risposta possibile era un’inevitabile citazione dei Manowar: it’s more than a religion, it’s the only way to live.

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Il programma del primo giorno inizia tardi, con il concerto degli sludgettoni francesi HANGMAN’S CHAIR alle 19. Li seguo distrattamente in attesa degli ELDER, che ero curiosissimo di vedere dopo essere uscito pazzo, come tanti, per Lore, uno dei migliori dischi stoner/doom del 2015. Gli americani mantengono le promesse e si rendono protagonisti di uno dei migliori show del festival. Non sono l’ennesima congrega di fattoni che basano tutto sulla ripetizione: i brani dal vivo conservano la ricchezza di dettagli e sfumature che hanno in studio e il viaggio è di quelli che richiedono attenzione e lucidità. Fuori dalla sala becco Gabriele dei Black Rainbows, che chiuderanno la serata. È contento, mi spiega che l’organizzazione è composta da ragazzi giovanissimi (bene così, l’età media dei promoter sta diventando pericolosamente elevata e senza ricambio generazionale siamo fregati) e che l’unico neo è il catering, composto esclusivamente da panini all’aringa e merendine confezionate da fame chimica. Il giorno successivo, dopo aver vagato per un’ora in cerca di qualcosa di commestibile, mi rendo conto che dal punto di vista gastronomico, Leeuwarden non offre poi molto altro, a meno di non voler spendere venticinque euro per una “vera pizza italiana” o vincere l’idiosincrasia per le cucine dell’estremo oriente.

Ci sarebbe ora da parlare dei FU MANCHU, che anche questa volta suonano tutto King Of The Road, ma non ho davvero nulla da aggiungere a quanto già scritto alcuni giorni fa dal Greco. È stato un concerto incredibile, di gran lunga il migliore dell’intera due giorni, così spettacolare che il giorno successivo ogni altra band sembrava destinata a deludermi per il solo fatto di non essere i Fu Manchu che suonano tutto King Of The Road. Scott Hill e i suoi compari hanno una BOTTA tale da mettere in imbarazzo praticamente chiunque. Superiorità, pura superiorità. Con i timpani che ancora rimbombano, mi reco nell’altra sala, dove hanno da poco attaccato i BLACK RAINBOWS, ormai professionisti collaudati, autori di una prestazione solida e coinvolgente. I pezzi del nuovo, e ottimo, Stellar Prophecy (più arioso e psichedelico del precedente Hawkdope, un lavoro di transizione che non mi aveva convinto tantissimo) dal vivo funzionano alla grande e il pubblico risponde bene. I romani si sono fatti un discreto seguito all’estero negli ultimi anni e avvisto più di un olandese con la loro maglietta. Si vede anche parecchia gente con la t-shirt degli Ufomammut. Nella sala fumatori più di una persona, una volta appresa la mia origine, mi dice che in Italia abbiamo una scena stoner/doom della madonna e il cuore mi si riempie di orgoglio patrio.

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In teoria aprire le danze alle 14 sarebbe toccato agli Alunah, purtroppo saltati all’ultimo momento. Me la prendo quindi comoda e arrivo in tempo per i WITCHSORROW, trio britannico al terzo disco, dedito a un doom dall’impronta anni ’80, con piacevoli variazioni melodiche che sanno di Nwobhm. Carini ma nella media dell’attuale revivalismo catacombale e dopo un po’ se ne ha pure abbastanza. Faccio capolino nella sala dove si stanno esibendo i TANGLED HORNS e mi bastano cinque minuti per capire che non è il mio genere: solito mischione modernista di hardcore, grunge, emo e chissà cos’altro. Niente di personale, per carità, ma mi propiziano meglio la digestione le glorie locali KOMATSU con il loro stoner rock violento e fracassone ma diretto e acchiappone. Si sarebbero trovati benissimo al Sinister Noise se solo il mio locale preferito dell’Urbe non avesse chiuso a luglio e quel dannato sisma il mese dopo non ci avesse portato via Riccardo che, citando un altro grande che se n’è andato, non aveva “escluso il ritorno”. Dei LONG DISTANCE CALLING mi frega poco (mera questione di gusti, dai due o tre pezzi che ho sentito mi sono parsi in ottima forma) e ne approfitto per ciondolare tra i due piccoli palchi che il sabato si affiancano alle scalette delle due sale principali, che non si sovrappongono quasi mai. Uno è montato nel bar più grande ma non vi salirà nessuno fino alle 20, l’altro è una saletta buia al piano rialzato, dove si trovano i banchi del merchandising. Quando vi entro c’è un anziano signore che suona ambient-folk minimalista con la chitarra di fronte a poche decine di persone accovacciate in silenzio, mentre alle sue spalle vengono proiettati film espressionisti. In quel preciso istante la cosa mi prende benissimo e mi godo tutta le performance. Quando finisce, mi dispiace pure. Scoprirò poi trattavasi del progetto FABLE DUST del compositore e regista olandese Niels Duffhues. Magari i film espressionisti di cui sopra erano suoi, quindi, chissà. A risvegliarmi dal torpore ci pensano i LONELY KAMEL, che sono norvegesi ma probabilmente vorrebbero essere nati a Austin o Nashville. Rock sudista alla ZZ Top semplice e divertente: c’è chi questa roba la fa molto meglio ma va bene lo stesso. I brani hanno titoli allegramente terra terra come Shit city e Damn you’re hot a chiarire che aria tiri. Il bassista assomiglia in maniera paurosa a Krist Novoselic. A un certo punto mi ero quasi convinto si trattasse proprio di lui.

monolordAbbandono i texani di Oslo prima che stacchino in modo da piazzarmi in prima fila per i MONOLORD. Il pubblico li accoglie con calore, segno che non siamo gli unici a considerarli una delle rivelazioni doom degli ultimi anni. L’anno scorso li avevo visti al Roadburn e questa volta mi sono piaciuti un po’ meno. Sarà che il pur pregevole secondo disco continua a non entrarmi in testa, sarà che i suoni sono un po’ troppo leggerini, lo show procede un po’ tra alti e bassi. Empress Rising è però già una piccola hit narcosatanista e sbraitiamo tutti il ritornello alzando le corna al cielo. Bene ma non benissimo. Mi prendo una pausa per rifocillarmi e cazzeggiare un po’ tra le bancarelle e rientro che i KARMA TO BURN hanno appena iniziato. Sarà almeno la quinta volta che li vedo dal vivo e sono sempre una devastante macchina da riff. Certo, la formazione non è più quella di una volta e la vecchia sezione ritmica aveva anche una sua valenza, diciamo, scenografica ma sono sempre botte sui denti assestate con impeto e precisione. Ottimo concerto ma il giorno prima i Fu Manchu erano stati così enormi che perfino una vecchia lenza come William Mecum soffre un po’ il confronto. Gli effetti dell’iniezione di adrenalina somministrataci dai Karma To Burn vengono annullati subito dopo dagli olandesi MONOMYTH. Space rock psichedelico con svarioni kraut per un trip suggestivo e allucinato, tra le migliori sorprese del festival (almeno per me, che li conoscevo solo di nome). A quest’ora sono l’ideale. Saluto l’Into The Void con un concerto, da me attesissimo, che forse mi ha lasciato un po’ deluso per le aspettative esagerate che nutrivo, anche sulla base dei racconti di chi se li era già goduti sul palco. Revengeance è uno dei migliori dischi doom usciti in questo 2016 e prima di partire alla volta di Leeuwarden non ho ascoltato praticamente altro per giorni. I CONAN attaccano con Throne Of Fire e si sente subito che qualcosa non funziona come dovrebbe. I pezzi vengono dilatati fino a durare circa il doppio rispetto alle versioni in studio e fin qua niente di male. Il nuovo batterista Rich Lewis non è però un mostro di ignoranza doom come il predecessore e ha un tocco fin troppo pulito, come fin troppo pulite sono le chitarre. La scelta dei suoni ha quindi un po’ penalizzato i Conan allo stesso modo di quanto era avvenuto con i Monolord un paio d’ore prima: manca quella cappa opprimente di riff che, in questi casi, conta per buona parte dell’atmosfera. Rientro comunque in albergo felice come un bambino. L’anno prossimo mi sa proprio che si replica. (Ciccio Russo)

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