Avere vent’anni: agosto 1996

nocode

PEARL JAM – No Code

Stefano Greco: I Pearl Jam (a Roma noti anche come p’ggeem) hanno avuto la sfortuna di non avere un cantante morto e di non essersi sciolti al momento giusto. Questo purtroppo li ha avviati alla tipica carriera fatta di primi album belli e bellissimi seguiti da una lunga serie di cose inutili. Dopo cinque anni vissuti alla velocità della luce, nel 1996 il gruppo decide di dimostrare al mondo di essere divenuto una band formata da persone adulte. La carta d’identità fasulla si chiama No Code e ce li presenta non grandi ma improvvisamente vecchi. Alla base c’è l’equazione sballata secondo la quale una cosa per essere intima debba necessariamente suonare acustica. La presunta sensibilità degli ex-ragazzi si traduce quindi in una collezione di lagne e lamentazioni nel solco del tipico suono dei vaccari americani. Una roba tristissima amplificata dal fatto che quando (due/tre volte) si ricordano di accendere gli ampli le canzoni gli escono pure benino. E quindi qualcosa da dire forse ce l’avevano ancora. Da qui in avanti l’assimilazione nel suono e nei circuiti mainstream sarà sempre crescente e li porterà ad assumere lo status di campioni del ‘vero ruock’; un po’ come Springsteen e gli U2 anche loro possono oggi contare su una fanbase di primati per i quali il verbo è unico e solo e tutti gli altri finiranno all’inferno. Tanti bei ricordi, sì, ma da allora me ne tengo abbondantemente alla larga.

Theli - 1997

THERION – Theli

Cesare Carrozzi: Tralasciando una di quelle famigerate copertine fatte col culo figlie dell’avvento del digitale, Theli è stato in assoluto uno dei cd che più mi sorpresero al primo ascolto. Ricordo che ficcai il dischetto nel lettore aspettandomi un metal vagamente ispirato ai Celtic Frost e quello che uscì fuori dalle casse dello stereo fu, dopo la classica intro che pure era carina, questo magnifico coro che fa da riff portante per il primo pezzo, To Mega Therion. Pensai che sarebbe stata una vera figata se tutto il disco fosse stato così. Lo era. Theli è un lavoro fantastico, che giunse completamente inaspettato se si considera quanto fatto dai Therion in precedenza. Ovviamente a livello commerciale fu un trionfo e lanciò gli svedesi in una carriera che vent’anni dopo in pratica si poggia ancora sulle basi fondate da quel magniloquente coro di To Mega Therion. I lavori successivi rimarranno mediamente buoni (specie l’accoppiata Lemuria/Sirius B) ma questo è la vera pietra miliare. Recuperatelo.

THEATRE OF TRAGEDY – Velvet Darkness They Fear

Trainspotting: Per questo album mi viene in mente il concetto accennato con Irreligious e Dusk and Her Embrace: l’equilibrio. Forse il 1996 è stato davvero l’anno dell’equilibrio; equilibrio tra innocenza e consapevolezza, purezza e mestiere, primordialità e riflessione. Non si spiegano altrimenti i dischi succitati, così come pure Velvet Darkness They Fear, seconda prova dei norvegesi nonché loro capolavoro – e qui, a differenza di Moonspell e Cradle of Filth, non c’è neanche la scuola di pensiero per cui era meglio il primo. Questo è uno di quei dischi la cui buona riuscita sarebbe dovuta essere data a quotazioni altissime in qualsiasi agenzia di scommesse, ed è davvero assurdo, a pensarci razionalmente, che una formula del genere sia riuscita a funzionare. Partendo innanzitutto dall’accostamento tra la voce superna di Liv Kristine e il growl a sturalavandini di Raymond, una combinazione che in seguito sarebbe stata copiata fino alla nausea, quasi sempre con risultati tali da confermare l’assurdità della sua buona riuscita in questa sede. Ma poi l’estetica da lettrice di Anne Rice, con le tettone nude in posa sofferta tra lenzuola di seta viola, i pizzi, i merletti, i broccati, gli strascichi di organza, le rose rosse con un petalo avvizzito, il mezzosoprano, il lessico scespiriano, gli sguardi languidi: funzionano. Funziona tutto. Non penso sia mai successo che tutti questi elementi insieme, solitamente odiosi e qui peraltro usati in abbondanza senza alcuna vergogna o remora, riuscissero a funzionare così tanto. Poi è solo un mio gusto personale, per carità, anche perché già vent’anni fa i ToT avevano un nutrito stuolo di detrattori, ma, dico, Seraphic Deviltry l’avete sentita? Che poi all’epoca i Theatre of Tragedy erano ancora un gruppo con una credibilità di genere, incastonandosi perfettamente in quel misto di gothic, death e doom che negli anni Novanta raggiunse picchi incredibili, dai My Dying Bride in poi. Fu solo successivamente che iniziarono a diventare quegli altri Theatre of Tragedy, perché probabilmente quest’equilibrio era difficile da mantenere. Aegis ha delle canzoni magnifiche, ed è quello che riascolto più spesso, ma è Velvet Darkness They Fear la cosa di cui saranno maggiormente orgogliosi quando racconteranno ai nipotini della propria carriera da musicisti.

BRUTALITY - In Mourning

BRUTALITY – In Mourning

Ciccio Russo: Sebbene avessero il nome più fico del mondo e almeno due album della madonna in carniere, i Brutality sono stati una delle formazioni più sottovalutate e, ahimé, sfigate della gloriosa scena di Tampa. La prima volta che ascoltai il debutto Screams Of Anguish, pensai che fossero europei. Avevano un suono abbastanza peculiare per una band statunitense, crudo e sinistro ma allo stesso tempo complesso ed evocativo, in virtù di una vena doom che li avvicinava più alla scuola inglese di Bolt Thrower e Benediction che al canone floridiano. In Mourning, terzo e ultimo album prima dello scioglimento, avvenuto due anni dopo, è un po’ sotto tono, se paragonato ai predecessori, ma ancora godibile. Erano venuti in parte a mancare quegli svarioni melodici che li rendevano particolari, qua limitati ai caratteristici assoloni. Si sono riuniti qualche anno fa e hanno pubblicato un nuovo full, Sea Of Ignorance, lo scorso gennaio. Non ne ho ancora parlato, mea culpa. Rimedierò.

purification

DYING FETUS – Purification Through Violence

Luca Bonetta: I Dying Fetus degli esordi erano molto, molto diversi rispetto alla band che sono diventati più avanti. Primo particolare tra tutti, la spontaneità nelle composizioni. C’era un tempo in cui, nel death metal, non dovevi a tutti i costi infarcire i brani con quindici milioni di note per poter essere considerato “innovativo”; ti bastava avere i pezzi, il giusto groove e quella botta che tutti i fan di questo genere cercano. La band americana queste cose le aveva tutte, e le ha pure conservate per quasi una decade, fino a Stop At Nothing, per intenderci. Da lì in poi il buio, dischi tutti uguali, zero idee, zero spontaneità; solo un marasma di tecnica posta al servizio del nulla assoluto. Purification Through Violence è il primo tassello di quel sentiero dorato, e oggi io mi sento un po’ più vecchio.

THE BLOOD DIVINE - Awaken

THE BLOOD DIVINE – Awaken

Piero Tola: Credo di aver parlato altrove di quanto succedeva ad una delle mie band preferite degli anni novanta in questo stesso periodo. Allora ebbi modo di dire che l’addio di Darren White alla casa madre fu un evento chiave nella carriera di tutti i musicisti coinvolti nel cambiamento. Gli Anathema andarono avanti per la loro strada e incisero l’album della vita subito dopo. Il buon Darren, invece, dopo aver praticamente saccheggiato la line-up di un’altra band che in seguito divenne assai illustre, almeno per le teenager con l’anello al labbro inferiore e il trucco da darkettone, se ne uscì appunto con questo Awaken
Ci misi un bel po’ a farmi piacere l’album in questione, forse ancora non pienamente convinto dall’esistenza di Darren come entità distinta dagli Anathema. Fatto sta che Awaken è un bel disco, anzi, un gran bel disco. Veramente pregevole e curato nelle atmosfere, pesante quanto basta quando c’e’ da calcare la mano e etereo e sognante come gli episodi più romantici di Serenades o Pentecost III quando l’attimo lo richiede. L’impronta di White è inconfondibile ed è cosi’ netta che pare proprio che un elemento nel suono dei primi Anathema si sia scisso per sempre dal combo-madre per non ritornarvi mai più. Elemento che è chiaramente distinguibile qua. Un eco fatto di sonorità accostabili appunto ai lavori di cui sopra, ancora paradigmatici dell’influenza death-doom che contraddistinse il tipico sound dell’ondata inglese dei primi anni novanta. Peccato per il successivo, e deludente, Mystica.

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RAGE – End Of All Days

Cesare Carrozzi: A solo un anno di distanza dal quel capolavoro che è Black In Mind, i Rage pubblicarono un altro discone, quell’End Of All Days che pare fosse composto quasi esclusivamente da b-sides venute fuori durante la composizione dell’album precedente. Che dire, ad averne di pezzi minori di tale caratura. Pur azzerando quasi completamente quella porzione thrashy che era un po’ il segno distintivo dei Rage nel panorama power metal, End Of All Days è un lavoro riuscitissimo, non veloce e aggressivo come Black In Mind ma altrettanto oscuro e molto melodico, che mostra chiaramente i prodromi di quello che sarà lo sviluppo della band negli anni successivi. I pezzi sono tutti fantastici, tranne forse la ballata Fading Hours, che è il tentativo piuttosto forzato e poco riuscito di bissare il successo di All This Time dell’anno prima. Comunque un gran disco, signori miei. Peccato poi sarà tutta una calata o quasi.

Bewitched - Diabolical Desecration

BEWITCHED – Diabolical Desecration

Ciccio Russo: In formazione c’erano esponenti di un certo livello della scena svedese in vena di cazzeggio: Anders ‘Blackheim’ Nystrom dei Katatonia, Kristoffer Olivius dei Naglfar, Marcus Norman (allora negli Ancient Wisdom, in seguito anch’egli nei Naglfar), più un batterista, battezzato ‘Reaper’, che ancora non s’è capito bene chi diamine fosse. Speed metal reazionario e cafone (ma manco troppo, sempre svedesi sono), corretto con cospicue dosi di black e un po’ più vicino alla Nwobhm rispetto alla media della tendenza thrashettona che prenderà piede di lì a poco, addomesticandosi inesorabilmente. In fondo non siamo così lontani dalla deriva che imboccheranno i Darkthrone da Hate Them in poi. Non so voi ma io di questa roba non ne ho mai abbastanza. Produce la Osmose dei tempi d’oro. Adorabili.

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BORKNAGAR – Borknagar

Charles: Erano anni in cui Garm se la comandava alla grandissima. In qualsiasi gruppo decidesse di cantare, se ne veniva fuori con un capolavoro. In minor misura rispetto ai coevi esordi di Ulver e Arcturus quello dei Borknagar, infatti, si piazzava sul gradino più basso dell’immaginario podio. Borknagar resta, ascoltato ancora oggi, un dignitosissimo disco di black metal seconda ondata che è invecchiato bene e merita di essere presente nelle collezioni di tutti coloro che si dicono fan del genere. Una formazione invidiabile (ci stavano pure Bjornson e Infernus) che pose le basi di quello che fu forse il migliore disco di black metal ‘classico’ dei norvegesi, ovvero il successivo The Olden Domain, anche se questo non era il mio preferito. Riascolto con maggior frequenza e piacere The Archaic Course rispetto ai primi due, anche perché penso che l’elemento che ha maggiormente definito e caratterizzato nel tempo la diversità dei Borknagar in confronto a tutti gli altri sia sempre stato il lavoro di Brun alle chitarre (oltre, ovviamente, alle personalissime linee vocali pulite introdotte dallo stesso Garm e riprese pari pari negli anni successivi da Vortex e Vintersorg), che in quell’album in particolare viene fuori prepotentemente.

 

 

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