Avere vent’anni: luglio 1996

mortician

MORTICIAN – Hacked Up For Barbecue

Ciccio Russo: Non sono mai riuscito a reggere i Mortician per più di cinque minuti. So che tanta gente ne va matta e capisco come possano risultare divertenti come concetto. I campionamenti dei film dell’orrore, la figura sopra le righe di Will Rahmer e la sua voce da sturalavandini, la batteria elettronica sparata a velocità grottesche eccetera. Qua è giusto ricordare che la batteria elettronica, adottata a partire da questo loro primo lp, non fu una scelta stilistica premeditata. Nei primi split ed ep c’era un batterista vero, tale Matt Sicher, che morì annegato in un lago nel ‘94 perché, dopo essersi fatto di PCP, si era convinto di poter camminare sull’acqua come Gesù. I due compagni superstiti, per rispetto nei suoi confronti, decisero di non rimpiazzarlo. Vi racconto questo edificante aneddoto perché su Hacked Up For Barbecue non ho nulla di eccessivamente acuto da dichiarare. Come all’epoca, ho fatto una fatica boia ad arrivare alla fine, anche perché, se suoni death/grind fognario e monolitico senza un’unghia di groove, cinquanta minuti di disco sono decisamente troppi.

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EMPYRIUM – A Wintersunset…

Charles: Ci sono band che si ispirano ad altre band e ci sono gruppi le cui orme sono ricalcate da così tanti altri gruppi da creare, nel tempo, dei veri e propri sottogeneri. Il secondo è il caso degli Ulver e degli Empyrium. Mentre i norvegesi con Bergtatt costruiranno, praticamente dal nulla, un nuovissimo immaginario fatto di ferocia black metal edulcorata da inattesi diversivi folkloristici, che avranno in seguito un pubblico personalizzato in Kveldssanger, i tedeschi partiranno da basi già consolidate per diventare punto di riferimento per una pletora di emuli. Gli Empyrium, dunque, pur essendo debitori agli Ulver, in primis, e secondariamente al movimento gothic, hanno avuto il merito di costruire intorno a sé, nel corso degli anni, una coltre di misticismo ben più impenetrabile dei loro principali riferimenti norreni. Questo per una serie di motivi che vanno dal semplice essere totalmente avulsi dalle logiche del music business al rifiutare le scene e i palchi, tanto è vero che il primo concerto live in assoluto degli Empyrium si è svolto in questi ultimi anni, cioè a circa dieci anni dall’ultimo album prodotto, Weiland, che a sua volta era un collage di vecchi brani e idee che risalivano addirittura al nostro tempo zero, cioè adesso, il 1996. A Wintersunset… è ancora un frutto acerbo che, però, già manifesta tutta la sua potenza in fieri, un disco che, riascoltato oggi, rimesta una serie di ricordi ma anche genera un senso di affetto quasi paterno verso l’opera ingenua di un figlio prodigio, ti fa sentire un po’ come il padre di Mozart immagino dovesse sentirsi ascoltando il primo ‘Andante e Allegro’ del suo figliolo di cinque anni. Con la differenza che noi non abbiamo nessun merito, a parte quello di averli sempre amati dall’inizio, visti evolversi e diventare dei geni.

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ULVER – Kveldssanger

Charles: Mentre gli Ulver, dopo uno scomodo ed ingestibile esordio, ingestibile perché incomparabile a tutto ciò che è venuto da loro in seguito, ma anche pressoché inaccostabile a nulla che fosse uscito in quel periodo, si sono costantemente evoluti (o involuti, fate voi) in forme sempre diverse, gli Empyrium sono rimasti fedeli a sé stessi, alla loro idea di musica semplice e primitiva, al tema naturalistico. Ma qui siamo di fronte ad un indiscutibile capolavoro. Ed è veramente l’ultima volta che posso dirlo a proposito di un disco degli Ulver. Kveldssanger è uscito qualche mese prima di A Wintersunset… e ora come ora non possiamo sapere quanto realmente il secondo sia frutto e figlio del primo. Resta il fatto che tutta la successiva carriera degli Empyrium, a partire dall’insuperato Songs of Moors & Misty Fields, nonché quasi tutto il catalogo della Prophecy/Auerbach, è costruito intorno ad un’idea apparentemente banale: una chitarra acustica, un flauto, qualche tamburo che fa atmosfera e cori su cori, su cori. L’idea di Kveldssanger, per l’appunto, basata su un delicato equilibrio narrativo fatto di intimismo, minimalismo ed eleganza. Una ammaliante gemma preziosa che spunta fuori dalla dura roccia del circostante panorama heavy metal, una Arkengemma regalataci da esseri ancora superiori, una perla gettata a porci che in pochi e a fatica sono riusciti a comprendere fino in fondo.

Trainspotting: Buoni i primi, merda tutto il resto.

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MASSACRE – Promise

Ciccio Russo: I Massacre devono il loro posto nella storia a From Beyond, uno dei capisaldi della prima ondata del death floridiano. Il tempo di un ep l’anno dopo, l’ancora valido Inhuman Condition, e, mentre i vari Morbid Angel e Obituary vendevano carrettate di copie, i Massacre andarono in malora, affondati da dissidi interni. Solo nel ’96, con una line-up rimaneggiata e i soli Kam Lee e Rick Rozz superstiti, uscì Promise, un  fallimentare tentativo di accodarsi alle tendenze moderniste di metà decennio. Poi, il nulla, almeno fino alla deludente reunion di un paio d’anni fa. Riesumato oggi, rimane una perdita di tempo, da aggiungere al lungo elenco di naufragi nei quali erano incappate in quel periodo tante vecchie glorie in cerca di lifting. Va ricordato che, all’epoca, l’ubriacatura di innovazioni era tale che, se te ne uscivi con un buon disco di death metal tradizionale, non era improbabile venire accolto dall’indifferenza più spocchiosa da parte dei recensori (ricordo voti bassissimi sulle riviste ad album come Here In After e Victory). Quindi, per molti, valse la pena tentare. Chissà, oggi con il breakdown elevato a canone estetico, Promise potrebbe pure essere rivalutato da qualcuno. In fondo l’attacco blues di Bloodletting era divertente.

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EARTH: Pentastar: In The Style Of Demons

Enrico: C’è la macchina in copertina, una splendida Plymouth Barracuda Sassy Grass Green che profuma di polvere e asfalto. C’è il drone degli esordi e lo stoner del Sud. Ci sono i Black Sabbath. C’è Jimi Hendrix. Ci sono otto pezzi che scorrono lenti e maestosi come la corrente del Mississippi. C’è un uomo tormentato da anni di abusi e dalla scomparsa del suo migliore amico, icona del grunge a cui aveva incautamente procurato l’arma del suicidio. C’è l’alcool. C’è la droga. C’è una tensione continua e palpabile, un climax ipnotico che cresce costantemente e non esplode mai. C’è la strada. C’è la vita. C’è la morte. Serve altro?

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DEEDS OF FLESH – Trading Pieces

Ciccio Russo: I Deeds Of Flesh sono oggi tra i migliori esponenti del brutal death tecnico all’americana, circuito al quale il chitarrista e unico membro originale superstite Erik Lindmark contribuisce anche gestendo la Unique Leader, casa discografica di riferimento della scena. Questo loro debutto sulla lunga distanza (l’esordio vero e proprio è l’ep Gradually Melted del ’95) mi colpì invece, all’epoca, per la totale assenza di assoli. Cupissimo a partire dai suoni, claustrofobico e ripetitivo, Trading Pieces, non uscì proprio nel miglior periodo possibile per il genere. Portando all’estremo la lezione di Suffocation e Cannibal Corpse, anticipò in qualche modo l’involuzione slam dei vari Disgorge e Devourment, a partire da quel terribile suono del rullante. Era e rimane, però, una prova mediocre e noiosa. Lo so che a tanta gente piace ma per me i californiani hanno iniziato a fare sul serio con Path Of The Weakening.

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SUBLIME – Sublime

Stefano Greco: Vincitori del prestigioso premio Sfiga edizione 1996, i Sublime da Los Angeles pubblicarono il loro omonimo disco ad una sessantina di giorni della morte per overdose del loro cantante e leader Bradley Nowell. L’album si doveva chiamare Killin’It ma per ovvi motivi di buongusto le circostanze imposero un cambio di titolo all’ultimo minuto. Il contrasto tra la solarità straripante della loro musica e la tragica vicenda che li vide coinvolti è un qualcosa che ancora oggi si fatica a mettere insieme. Ma in fondo unire le cose più disparate con naturalezza era il loro talento principale: i Sublime mischiano, citano e rubano e di tutto senza pietà, dai Beatles a Gershwin al reggae e ne tirano fuori una forma di un ska-punk-crossover leggerissimo di cui detengono il marchio in maniera esclusiva. Colonna sonora per un barbecue senza fine il cui nocciolo oscuro resta ancora invisibile.

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MOONSPELL – Irreligious

Charles: Somos memórias de lobos que rasgam a pele me lo volevo tatuare su un braccio… Irreligious è il miglior album prodotto dai Moonspell pur non essendo il più bello. Mentre, da una parte, rappresenta il temporaneo punto di arrivo di una band che è sempre stata considerata una innovatrice (già prima che partisse per la tangente della sperimentazione), dall’altra è un evidente passo indietro rispetto al peculiarissimo black metal di seconda ondata ‘terronizzato’ attraverso intarsi e fregi di folklore lusitano. Passo indietro ed evoluzione. Irreligious è entrambe le cose. Le due anime dei Moonspell che da sempre li caratterizzano. Wolfheart era il cuore, Irreligious è il cervello: il parto di una complicatissima e fortunatissima idea realizzata usando le migliori soluzioni tecniche disponibili all’epoca. Fare meglio, dopo un esordio di quella potenza, sarebbe stato umanamente impossibile e il bello è che i portoghesi ci erano quasi riusciti. Riascoltato oggi questo disco non ha perso nulla della sua freschezza; è assurdo ma sembra che sia uscito nel 2016 e non vent’anni prima. Scegliere tra Wolfheart e Irreligious è impossibile, è un po’ come rispondere alla domanda se vuoi più bene alla mamma o al papà. Io la mia scelta di campo ideologica l’ho fatta tempo addietro ma mi è costata molto, perché arrivi fino a Mephisto e ti dici che, no, dai, non è possibile fare di meglio e poi parte Herr Spiegelmann e poi Full Moon Madness… E vabbé, allora uccidetemi. Resta il fatto che all’epoca i Moonspell rappresentavano uno dei motivi per i quali mi fregiavo del titolo di ‘metallaro’. Non è escluso che un giorno lo farò davvero quel tatuaggio.

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ALICE IN CHAINS – Mtv Unplugged

Ciccio Russo: Dei quattro cavalieri dell’apocalisse di Seattle, Cantrell e compagni sono probabilmente quelli ai quali resto maggiormente legato dal punto di vista emotivo. Adorai i Nirvana in adolescenza ma oggi è piuttosto raro che girino nel mio lettore. I Pearl Jam li ho riscoperti con l’avanzare dell’età. I Soundgarden non li ho mai amati davvero sebbene fossero partiti come gruppo stoner ante litteram. Gli Alice in Chains sono rimasti invece una presenza costante nel mio stereo per almeno due ragioni. La prima è il fortissimo legame emotivo stabilito negli anni con Dirt, la seconda è che ascolto il loro Unplugged di Mtv ogni volta che ho una spranghetta violenta. Inaugurai tale usanza 15 e passa anni fa, ai tempi dell’università. Reduce dalla consueta sortita studentesca al Quagliaro, il cui vino della casa era all’epoca ancora più pernicioso, mischiato l’imbevibile e riaccompagnato a casa da un collega pietoso, mi svegliai in condizioni talmente riprovevoli che, all’atto di scegliere l’album con cui iniziare la giornata, mi resi conto di non reggere nulla che non fosse acustico. Misi su l’unplugged degli Alice In Chains e, tra conati e colite, trovai una parvenza di pace. Non lo cambiai fino al calar del sole (beh, mi ero pure svegliato alle tre del pomeriggio). Quando si sta male, si sente il bisogno di ascoltare qualcuno che stia peggio. E trovare qualcuno che stia peggio di Layne Staley durante questa registrazione è davvero difficile.

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