Avere vent’anni: maggio 1996

godcries

ASPHYX – God Cries

Andrea Bertuzzi: In un periodo che vide diverse band europee perdere la brocca pubblicando dischi più o meno improbabili, arrivò anche God Cries, improbabile colpo di coda di una band sciolta ormai da due anni dopo un’altrettanto improbabile serie di sconquassi interni alla formazione. Fu il batterista Bob Bagchus a rimettere insieme i cocci insieme all’altro membro storico Theo Loomans, che per l’occasione si fece in tre scrivendo tutte le parti di chitarra e basso, oltre a occuparsi delle vocals. E furono probabilmente proprio l’atmosfera da anno zero e la voglia di tagliare col passato – oltre ai gravi problemi psicologici di Loomans – a motivare un vero sputo in faccia a tutto ciò che gli Asphyx avevano rappresentato fino a quel momento: produzione (relativamente) pulita e brani che sono poco più che sfoghi sparati a mille (salvo qualche sporadica apertura in odore di groove metal) dominati dalla marcissima voce di Loomans, che vomita invettive contro i santi e la vita mignotta con un livore degno del crust e dell’hardcore più trucido. All’epoca fu il classico caso di disco che riesce sia a scontentare i fan storici sia a non conquistarne di nuovi; gli Asphyx si sciolsero nuovamente di lì a poco, il povero Loomans finì spalmato sotto un treno due anni dopo e l’esperimento (o passo falso che fosse) fu rapidamente dimenticato. Pur con tutta la buona volontà non lo si può proprio far passare come un classico misconosciuto; però fu il primo disco degli Asphyx che comprai, un po’ ci sono affezionato, e una scapocciata sulle note della title-track ogni tanto ci sta ancora.

1996-Down-on-the-upside

SOUNDGARDEN – Down On The Upside

Stefano Greco: La stagione della musica di Seattle è arrivata alla fine. La gente vuole fare altre cose, vestirsi in maniera differente, sentire altri dischi. Non è una cosa che ha deciso nessuno, non sta scritto da nessuna parte ma è una faccenda che si percepisce. E’ nell’aria. Down On The Upside è come un ultimo abbraccio: è molto più di una semplice formalità, ti lascia lievemente insoddisfatto e contiene l’inevitabile amarezza di ogni addio. In questo suo fotografare il crepuscolo è più emozionante oggi di quanto fosse venti anni fa, o forse è solo che risentire certe canzoni mi rende un po’ malinconico. Ma non potrebbe essere altrimenti, è stato la colonna sonora del viaggio dopo gli esami di maturità e sapete come sono queste cose.
“Il passato è l’unica cosa morta che abbia un buon profumo”. L’ha detto un poeta inglese, lo so perché stava scritto dentro a un cioccolatino.

vile

CANNIBAL CORPSE – Vile

Il Messicano: Sui Cannibal Corpse ci sono fondamentalmente tre “scuole di pensiero”. Da una parte gli ultras di Chris Barnes, che sostengono da sempre che dopo il suo abbandono il gruppo si sarebbe dovuto sciogliere. Poi ci sono i tolleranti, cioè chi sostiene che entrambi i periodi siano apprezzabili, anche se magari in modi diversi. E ancora i “corpsegrinderiani”, cioè coloro i quali sostengono che con l’ex Monstrosity i Cannibal siano addirittura migliori rispetto al primo periodo. Io faccio parte dei secondi: il periodo Barnes è storico ed irripetibile ma anche dopo, con l’uomo dal collo più largo del mondo alla voce, i Cannibal Corpse hanno senza dubbio il loro perché. Mi fa strano essere qui a scrivere due righe addirittura per il ventennale di Vile. Mi sembra ieri che lo consumavo per ore, su cassettina Tdk, riascoltandolo a palla per interi pomeriggi, anziché studiare come cercavano di impormi. Questo fu il primo album con il nuovo ruttatore in formazione e per me è una bomba: scarno, diretto ed ignorantissimo, con un George Fisher devastante che vomita sangue e merda a ritmi inumani senza mai fermarsi (esattamente come fa dal vivo, tra l’altro. E chi li ha visti sa di cosa parlo). Più che una “recensione”, questa è per me un’occasione per tributare un gruppo coerente che non si è fatto mai tentare dalle mode, né si perse d’animo quando un componente importante come Barnes lasciò la formazione. Fu proprio Vile l’inizio della loro “nuova era” e, se dopo vent’anni sono ancora in piedi e noi siamo qui a parlarne, vuol dire che nelle ultime due decadi hanno percorso la strada giusta, seppur, ovviamente, tra alti e bassi. Vogliamo parlare del suono delle chitarre di questo disco, che è un impasto di budella, cervella e vomito che manco l’intera filmografia della Troma? No. Io vado a rispararmi Vile, visto che non lo faccio da anni. Fatelo anche voi, che sia la prima volta o la centesima.

Altri venti di questi anni, Cannibal Corpse. E vaffanculo a chi vi vuole male.

impellitteri

IMPELLITTERI – Screaming Symphony

Cesare CarrozziDi Impellitteri ci sono certe, poche cose che mi piacciono e tutto il resto che non mi garba molto. Non so, non mi piacciono molto le canzoni che scrive, troppo ‘americane’ se mi passate il termine. In generale non mi piace neanche come suona, una sorta di Malmsteen vorrei-ma-non-posso, tutto preso ad andare veloce ma praticamente senza vibrato e coi bending pure un filo stonati (fino a qualche tempo fa), tanto che se poco poco rallenta un attimo davvero cominciano a farmi male le orecchie. Screaming Symphony non mi ha mai fatto impazzire, per dire. Non è brutto brutto, però boh, non mi ha mai preso. Ce ne sono altri che apprezzo assai di più, tipo Crunch o (soprattutto) System X con Graham Bonnett alla voce. C’è di meglio insomma, anche e soprattutto se vi piacciono particolarmente i guitar hero.

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SACRAMENTUM – Far Away From The Sun

Ciccio Russo: L’ep d’esordio Finis Malorum – che arricchiva il filone dei titoli in latinorum alla cazzo di cane con un notevole Devide et Impera – aveva suscitato discrete impressioni. Il full di debutto Far Away From The Sun fu un bel salto in avanti, anche per l’arrivo alla batteria dell’ubiquo Nicklas “Terror” Rudolfsson (Runemagick, Deathwitch, Swordmaster). Fu accolto da ottime recensioni ma non vendette tantissimo. All’epoca in Svezia stavano accadendo cose straordinarie e il nostro portafogli di adolescenti ci costringeva a una selezione molto dolorosa. Infatti avevo la cassettina. Il death/black alla svedese non era manco il mio genere preferito, alla fine. Si sciolsero nel 2001, dopo altri due lp che ammetto di non aver mai recuperato.

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AMORPHIS – Elegy

Luca Bonetta: Ormai non ricordo nemmeno più come conobbi questo disco. Ricordo solamente che mi venne prestato da un amico, su disco rigorosamente masterizzato (non vogliatemene, all’epoca non disponevo di una connessione internet) e che lo ascoltai fino a consumarlo. Non avevo mai sentito nominare gli Amorphis prima di allora, e ancora oggi è il loro lavoro che conosco meglio, non avendo più seguito i fasti della band finlandese. All’epoca non ero ancora particolarmente esperto in fatto di metallo e non riuscivo ad inquadrare Elegy in un genere ben definito. Paradossalmente, non riesco a farlo nemmeno adesso, dopo diversi anni di “militanza” e una conoscenza del genere molto più ampia. Forse la bellezza di Elegy sta proprio in questo, nel suo essere trasversale attraverso più stili risultando sempre fresco e coinvolgente, anche a distanza di anni. E proprio di anni si parla, cadendo questo mese il ventennale dalla sua uscita. Come dicevo, non ho più seguito gli Amorphis, ma da quel poco che ho sentito un disco come Elegy non l’hanno più ripetuto, same old story.

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GAMMA RAY – Alive ’95

Cesare Carrozzi: All’epoca lo avrei preso comunque ma comprai fomentatissimo questo disco dal vivo dei Gamma Ray quasi solo per la cover di Ride The Sky suonata con Kai Hansen alla voce, eventualità che avevo dato per morta e sepolta ormai da tempo. Dovete sapere che per il sottoscritto Ride The Sky ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, l’archetipo del power metal veloce crucco, specie in quella versione registrata dal vivo che gli Helloween diedero alle stampe come lato b del maxi singolo Judas, ovviamente sempre cantata dal Kai Hansen, nell’ormai lontanissimo 1986. Fa parte di una serie di canzoni e libri che devo necessariamente ascoltare/leggere a cadenza più o meno stretta, perché se è vero che durante l’arco della vita, e specie durante la crescita verso l’età adulta, i gusti si evolvono e possono pure cambiare, certe cose per me non cambiano mai e la passione eterna per alcuni dei momenti formativi della mia vita fa parte di quest’ultima categoria. Com’è quindi questa Ride The Sky? Piacevole, ma meglio quella del 1986. Ed il resto del disco? Ottimo. Gamma Ray in piena ascesa all’olimpo del power metal di metà anni ’90, i pezzi tratti da Land Of The Free dal vivo rendono tantissimo e la voce di Kai Hansen tiene botta alla grande. Se vi piace il genere recuperatelo, e pure la Ride The Sky che vi ho detto.

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ANCIENT RITES – Blasfemia Eternal

Ciccio Russo: Il più fulgido contributo degli Ancient Rites alla storia della nostra musica è senza dubbio l’indimenticabile Blood of Christ (Mohammed Wept), una vigorosa invettiva bipartisan contro le due più diffuse religioni del Libro che raggiungeva il suo apice in uno stacco in mid-tempo nel quale l’amico Gunther Theys (che nel frattempo è pure diventato frontman di un gruppo skinhead, tali Lion’s Pride, per fare pace con l’alopecia) scandiva una bestemmia in italiano. All’università la ascoltavamo sempre nei momenti di deliquio botanico e ci rotalavamo dalle risate. Siamo dei poveri di spirito, che ci volete fare. Salvo la succitata gemma, Blasfemia Eternal è uno dei dischi più scialbi e noiosi prodotti da una band già di per sé non fondamentale. Meglio il grezzo fascino del debutto The Diabolic Serenades o le suggestioni pagane del successivo Fatherland.

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