Avere vent’anni: PANTERA – The Great Southern Trendkill
Stefano Greco: Il canovaccio classico vuole che le band di metallo pesante una volta arrivate al successo tendano ad ammorbidire i toni e a diventare via via più commerciali. Per i Pantera vale il discorso opposto, ad ogni salto in avanti di popolarità ha corrisposto un successivo abbrutimento del sound. L’apice di questo loro particolare cursus honorum viene toccato con l’album del ’96: The Great Southern Trendkill è il lavoro più brutale della loro discografia. Ma se il percorso fino a pochi anni prima sembra quasi lineare e premeditato, la svolta di TGST sa più di esito imprevedibile e realmente (passatemi il termine) artistico. Far Beyond Driven era un disco inciso da gente sicura di sé, era la fotografia di una band intenta a prendersi tutto, era il cazzo duro eletto ad unico valore di vita. The Great Southern Trendkill è per mille versi il suo esatto opposto, è il disco più cattivo ma contemporaneamente anche il più intimo. E’ quasi un parto indesiderato per un gruppo la cui unica legittima aspirazione sembrava solo l’avere a disposizione sempre più alcol, sempre più cocaina, sempre più zoccole nel backstage. Violenza e fragilità diventano due facce della stessa medaglia. Non c’è nulla di ragionato dietro, certo è possibile a ritrovarci il trascorso recente nei Down e le derive di metallo estremo abbracciate dal cantante negli anni seguenti. Ma alla fine, come si scoprirà in seguito, a fare la differenza deve essere stato il grado zero dei rapporti fra la parti coinvolte. Un album registrato da gente che non si sopporta, non si vede, non si parla e si spedisce nastri per posta. Con la dipendenza dall’eroina di Phil Anselmo che regna sovrana su tutto. Se suoni la musica del disagio, queste sono le condizioni ideali per tirarne fuori la migliore possibile. All’epoca non del tutto compreso The Great Southern Trendkill ha acquisito con il tempo lo status di culto che meritava. Album incredibile.
Ciccio Russo: Dopo la sbronza di successo di Far Beyond Driven, (il best seller più improbabile di sempre: fu il primo disco heavy metal a piazzarsi in cima alla classifica di Billboard), The Great Southern Trendkill è l’inevitabile hangover, e di quelli davvero laceranti. Erano esplose le tensioni interne tra i fratelli Abbott e un Phil Anselmo ormai fuori controllo. Appena di due mesi successiva alla pubblicazione dell’album è l’overdose dove il cantante rischiò di lasciare la pelle. Anselmo registrò le sue parti da solo in un altro studio, con Seth Putnam che ogni tanto faceva capolino (suppongo per i rifornimenti di droghe pesanti) e sbraitava nel microfono uno dei suoi urlacci al vetriolo. Di quel machismo ribaldo e incazzato, che aveva fatto innamorare dei Pantera legioni di adolescenti che non ne potevano più dell’estetica della depressione grunge, viene fuori tutto il lato oscuro. Le fitte alla testa, i tremori, la tachicardia, i cocci di bottiglia per terra e le chiazze di vomito sui vestiti strappati chissà come e dove la notte precedente.
The Great Southern Trendkill è il mio disco preferito dei texani perché è il più estremo. Lo preferisco a Far Beyond Driven pure perché, obiettivamente, ha più pezzi. Il predecessore era basato soprattutto sull’essere riusciti a elaborare un suono il più compresso e pesante possibile, quel suono che poi copieranno tutti. La title-track, con quell’attacco frenetico, Drag the waters, 13 Steps to Nowhere sono sale grosso su slabbrate ferite emotive. Le due Suicide Note (la prima è una sorta di ballata che avrebbe potuto stare benissimo sull’esordio dei Down, così come la splendida 10’s, a un passo dallo sludge di New Orleans) esprimono un’angoscia quasi disturbante. La furia di The Great Southern Trendkill è la stessa di certe ultime scopate con la donna che stai lasciando: ci vai pesante perché sei incazzato e, allo stesso tempo, dai del tuo meglio per farle capire cosa è destinata a perdersi d’ora in poi. Qua, invece, stavamo perdendo il gruppo metal più importante degli anni ’90. Nessuno fu in grado di reclamare il trono: gli unici possibili pretendenti, i Sepultura, erano già andati a puttane per conto loro.
Ieri mi sono rivisto il Behind The Music, stamane ho visto un’intervista fatta durante l’Ozzfest 2000. The Great Southern Trendkil è alcune volte considerato un disco, quasi inferiore, rispetto ai precedenti tre ma non è così. E poi come non amare un disco che ha una cazone che si chiama Suicide Note, Pt 1…Cheap cocaine, a dry inhale, the pills that kill and take the pain away
Diet of life, shelter without, the face that cannot see inside yours and mine…quando si dice che uno mette il suo cuore nero su bianco.
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Ogni volta che ascolto un disco della tripletta Vulgar-Far Beyond-Trendkill penso “questo è il migliore dei Pantera”. Però effettivamente il neo ventenne è forse il più vario ed è come andare su un ottovolante con la sbornia triste, incazzarsi e gasarsi durante le discese e farsela prendere malissimo mentre si sale lenti. E poi qui c’è “Floods”, negli altri dischi no.
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Questo disco “è rimasto” ed è il preferito dei Pantera di era adolescente all’epoca dell’uscita perché all’epoca un quindicenne che non sapeva un cazzo della vita non poteva capirlo. Poi, con gli anni, soprattutto se si ha avuto una vita privata sufficientemente tormentata e almeno una vaga idea di come funzionino le dipendenze, cresce insieme al tuo malessere.
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Avrebbero potuto fare qualsiasi cosa, ma decisero di aprire questo disco con l’urlo di Seth Putnam. …. Ho sempre pensato che l’urlo iniziale fosse di Anselmo.
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Pensate che io i Pantera non li conosco. Salvo 2-3 pezzi famosi. Sono all’ascolto ora di Cowboys from Hell. A volte arrivare ad ascoltare la Storia molto, molto in ritardo, ti da strumenti diversi per goderne.
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Questo album ha la rabbia…
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il mio preferito dei pantera, un libro aperto su 4 persone devastate, sputa rabbia e tormento da ogni nota. canzoni come la title-track o sandblasted skin sono volgari schiaffi in faccia e pezzi come 10’s danno un senso di soffocamento allucinante, per una volta i testi non sono mostruosamente criptici( qualcuno sa di cosa parla quello di floods?alcuni cacciano pure l’ipotesi dell’apocalisse), e fanno davvero male.che cazzo di band che è esistita
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“Floods” dovrebbe indicare un’alluvione/inondazione o, se vogliamo il riferimento biblico, il diluvio universale. Non è semplicissimo da capire come testo, soprattutto l’inizio non mi è molto chiaro, ma c’è qualche frase che mi fa propendere per questa tesi (che in rete va per la maggiore). Oltre al palese “wash away us all”, nel finale si parla dell’umanità che durante il giorno gioca con le granate e di notte ha a che fare col nostro amico capro, due atteggiamenti che possono scatenare l’ira del dio biblico. Quindi sì, l’apocalisse ci sta!
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l’apocalisse l’avevo pensata anch’io e visto che non sono l’unico, direi che la prendiamo per buona!ahah
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E pensare che io non l’ho mai ascoltato… ho adorato i panteta di cowboys e vulgar. Poi la passione è scemata con far beyond driven, e successivamente con la mia virata totale al black, li ho proprio snobbati… a sto punto mi avete incuriosito. :-)
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io preferisco di gran lunga vulgar display. questo non l’ho mai mandato giù
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la penso totalmente come voi. da ragazzo non l’ho digerito subito, se non qualche pezzo…poi con il passare del tempo mi è sempre più entrato dentro.
certo, l’impatto di far beyond driven non si può non considerare…senza quello forse non sarei nemmeno diventato metallaro (?!)
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Il Messicano pezzo di merda!
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In terza media mio cugino grande dice hey ti piace la musica PAM mi scarica in mano Irony is a dead scene dei cosi non mi ricordo ma li ho usati per rovinare un capodanno, naked city e reinventing the steel e tgst. L’ultimo l’ho capito per ultimo, le strombazzate di john zorn lì per lì in confronto sono un esercizio di stile. All’inizio era troppo duro. Poi si schiude si stappa come una birra calda in stazione ad agosto hanno cancellato il treno c’è puzza di piccione morto. Totale. E come ha detto qualcun altro in questo c’è Floods negli altri che hanno fatto no. Ti fa saltare sempre.
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