Avere vent’anni: NEUROSIS – Through Silver In Blood

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Per tutto l’anno scolastico 1995-96, leggere Metal Shock in classe ha dato un senso a interminabili ore altrimenti destinate ad annichilire sul nascere qualsiasi impulso vitale, iniziativa o scatto di volontà non fossero strettamente connessi al tentativo di contrastare con ogni mezzo la lobotomia frontale in corso. Anche con gli amici, la scuola faceva cagare: aria bianca, tiritere sbrodolate di default da troppi anni davanti a troppi occhi irrimediabilmente assenti, nozioni scollegate da individui scollegati per plasmare future teste scollegate, entrare nel flusso o cavarsene per finire in qualche altro flusso più degradante. Una volta capito com’era la mossa, avrei imparato molto presto a detestarla sotto ogni singolo aspetto; gli anni che mi aspettavano sarebbero stati peggio ma ancora non potevo sapere. Nascondere Metal Shock dentro un libro o sotto un quaderno, tra i migliori meccanismi di difesa conoscessi. Mi aggrappavo a quelle pagine più di un naufrago al relitto mentre contemporaneamente fingevo di prestare attenzione al vago, indistinto ronzio di una megera e variabili comparse; la testa già fuori di lì, verso negozi di dischi che erano l’anticamera della vita vera, la parte che contava se non altro. Nel numero 216, Pantera e Soundgarden in copertina, il disco che apriva lo spazio recensioni l’epifania più devastante, fin dal primo contatto. Non per il nome o il titolo o l’immagine in bianco e nero, a malapena decifrabile: per le parole spese al riguardo.

Personalmente ritengo che i Neurosis abbiano visto per davvero l’inferno e dalla consapevolezza di ciò che li attende dopo la morte traggono linfa vitale per comporre canzoni in cui la sofferenza, la disperazione e la follia sono in perenne tensione e dal cui scontro nasce il male fatto musica.

E ancora

Qui l’ascoltatore rischia seriamente la sanità mentale.

E ancora

Sono certo che se sapete cosa significa vivere la disperazione e il dolore sulla propria pelle, allora non vi farete sfuggire questo album.

Per concludere con

Aggiungo solo che ogni qual volta li ascolto resto realmente turbato e ho l’impressione che riescano a tirar fuori il marcio che si cela in ognuno di noi.

La strada era segnata, ben chiare le priorità: mettere le mani su quel disco il prima possibile, ad ogni costo. La ricerca sarebbe stata sorprendentemente breve: nel negozio dove passavo quasi ogni giorno al ritorno da scuola avrei trovato una copia al prezzo di un CD singolo: 13.900 lire, probabilmente ingannati dal formato (digipack sottile) e dal lettering cuneiforme praticamente incomprensibile, indizi che portavano a pensare più a un mini o un EP che a “9 brani termonucleari per un totale di 71 minuti di puro dolore sonoro”. Un regalo inaspettato. Quel che sapevo e sentivo prima ancora di averne ascoltata una singola nota: quanto il contenuto, alle mie orecchie, corrispondesse parola per parola alla descrizione.
Non ho mai conosciuto Roberto Michieletto, Torino era parecchio fuori dai miei giri; non ero il tipo da lettere o interazioni di altro tipo, quindi non ho mai avuto modo di ringraziarlo. Lo faccio ora, qui: la recensione di Through Silver In Blood ad avermi fatto scoprire l’esistenza dei Neurosis è sua. Mai parole altrettanto persuasive. Per la persona che ero, per quel che avevo bisogno di sentire, pugni al cuore e chiodi nel cervello. Through Silver In Blood mi avrebbe tenuto compagnia per il resto della vita, ancora mi tiene compagnia; magari meno spesso, comunque sempre lì. Fosse stato un LP, ora potrei dire di avere spianato i solchi per quanto l’ho fatto girare.

Nel 1996 i Neurosis erano già i Neurosis; lo sarebbero rimasti per altri due dischi (Times of Grace, A Sun that Never Sets) prima di inserire il pilota automatico e passare alla cassa ad esclusivo piacere di masse acritiche di barbuti adoranti, sempre pronti a osannare aprioristicamente ogni nuovo disco, a foraggiare ogni tour e fisiologico corollario di merch apocalittico-esoterico in grandi quantità, non importa quanto abissale lo scarto tra pre e post-2001 – l’11 settembre della loro cosa. In mezzo l’emanazione ambient Tribes of Neurot, l’etichetta Neurot Recordings che diventerà istituzione (il più delle volte a buona ragione. Il meglio: la ristampa americana di Naptánc dei corrieri cosmici ungheresi Vágtázó Halottkémek, passione condivisa con Jello Biafra in Alternative Tentacles assetto), ad oggi troppi dischi solisti (molto belli comunque i primi due di Von Till, capolavoro assoluto Spirit Bound Flesh di Scott Kelly, il resto irrilevanti variazioni sul tema indistinguibili l’una dall’altra). Con variabili soci sempre sulla breccia, la perdita più grave Pete Inc. – dopo Adam Kendall e prima di Josh Graham responsabile dell’apparato visuale proiettato durante i concerti, dei tre il più radicale: “filmati allucinanti, con una forte impronta gotica, ma dove potrete anche vedere disperazione, sangue, fiamme, croci che bruciano, gente che si spara in bocca, corpi orribilmente torturati ed altre deviazioni simili” (sempre Michieletto) – senza il quale nulla è più tornato a essere com’era. In qualche modo iconografici: Scott Kelly faccia, fisico e tatuaggi da stupratore seriale, Steve Von Till come Rasputin ma senza i capelli. Insieme, un monumento di pessime vibrazioni universalmente riconosciuto. (Matteo Cortesi).

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