Avere vent’anni: gennaio 1996

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DARKTHRONE – Total Death

Trainspotting: Total Death segna il passaggio tra le due principali ere dei Darkthrone. Se Panzerfaust era l’ultimo disco pienamente norsk arisk black metal, diciamo così, questo in esame inizia a mettere in discussione parecchi dogmi e a traghettare il duo verso i futuri lidi black’n’roll, o comunque li si voglia chiamare. Non è solo un episodio come Black Victory of Death, in cui la trasformazione è più evidente e che non sarebbe mai potuto essere su uno dei precedenti dischi, ma anche pezzi più canonici come Earth’s Last Picture o Gather for Attack on the Pearly Gates rivelano un’attenzione strutturale, strumentale e formale concettualmente impensabile rispetto al passato. Il capolavoro della fase successiva sarà Plaguewielder; Total Death ha l’enorme merito di scavarne le fondamenta.

 

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COUNT RAVEN – Messiah of Confusion

Stefano Greco: In anticipo di almeno una quindicina di anni sul revival in corso ma anagraficamente troppo giovani per essere considerati pionieri i Count Raven guidavano un macchina del tempo talmente scassata che li fece arrivare contemporaneamente sia in ritardo che in anticipo. È il tempismo perfettamente sballato e che li marchierà per sempre come outsider, essendo il livello della loro produzione non di certo inferiore a molte delle cose per cui oggi ci facciamo le pippe (Destruction Of The Void del 1992 è un discone). Ma in quegli anni c’era evidentemente maggiore movimento nel circuito della musica tozza, e quindi a suonare come gli svedesi si veniva considerati dei disadattati con il mito dei pantaloni a zampa e non preziosi custodi una qualche ortodossia. Qui non siamo al top della loro discografia ma qualche bel pezzo c’è ancora (risentitevi Shine), Messiah Of Confusion è anche l’album che li avrebbe mandati in ibernazione per oltre un decennio prima che il rinnovato interesse per il genere li rimettesse per poco in pista. Al momento risultano nuovamente dispersi.

 

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DIMMU BORGIR – Stormblåst

Trainspotting: I primi tre dischi dei Dimmu Borgir, capolavori assoluti del black melodico norvegese, sono estremamente diversi l’uno dall’altro: Stormblast non ha più l’adorabile suono da scantinato di For All Tid né tantomeno la compiuta consapevolezza di Enthrone Darkness Triumphant. Tuttavia sarebbe sbagliato considerarlo una semplice via di mezzo, una mera fase di passaggio tra i due suddetti. Semplicemente, ne è talmente diverso da sembrare opera di un’altra band. E comunque sarà un’espressione abusata, ma ci sono più spunti qui che in intere discografie di altri gruppi. Antikrist assolutamente sugli scudi.

 

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DARK FUNERAL – The Secrets of the Black Arts

Ciccio Russo: Ho sempre avuto un debole abbastanza ingiustificato per i Dark Funeral. Non hanno mai avuto la continuità qualitativa dei connazionali Marduk, né tantomeno la personalità e il genio dei Dissection. Però, per qualche motivo, mi sono sempre stati simpatici. Ricordo un loro concerto a Roma, tour di Attera Totus Sanctus (ma porca puttana, se non conosci il latino, non usarlo; o quantomeno interpella qualcuno che lo conosce), in un locale che non si era mai sentito e nessuno conosceva a Testaccio. Per non farci smarrire la via di Satana, nell’appezzamento incolto a fianco dell’ex mattatoio, era stato piantato un cartello nel terreno con scritto “Dark Funeral”, con una freccia per la direzione e un pentacolo random. Il concerto fu divertente. C’erano pure i Defleshed di supporto. Spaccavano, i Defleshed. Il bassista alto e ciccione era l’unico che non stava a torso nudo ed era stato insultato e fischiato finché non si era tolto la maglietta, sfoderando la sua orrenda panza. A un certo punto l’idolo sempiterno Caligula aveva declamato: “Now it’s the time to open the gates to our Lord: SATAN” prima di An Apprentice of Satan, alzando il braccio e brandendo l’indice. Ma là sopra non dovrebbe esserci il Paradiso? Boh. Vi ho raccontato questa storia perché non ho un’opinione particolarmente profonda sull’esordio dei Dark Funeral, che all’epoca facevano poco più che scimmiottare i norvegesi senza restituirne l’atmosfera, dato che, da svedesi, avevano un approccio più ragionato e meno caotico. Un disco dignitosissimo ma che sfigura non solo davanti a un Heaven Shall Burn o a uno Storm of the Light’s Bane (e grazie al cazzo, direte voi) ma anche di fronte a dimenticati kvlti dell’underground black di Svezia come Dawn o Throne of Ahaz. Meglio i successivi Vobiscum Satanas e Diabolis Interium, forse la loro prova migliore.

 

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NAPALM DEATH – Diatribes

Luca Bonetta: Il fatto che tutti sbaglino è un dato di fatto abbastanza incontrovertibile, e su questo penso siamo tutti d’accordo. Quando a sbagliare è qualcuno verso il quale nutriamo infinita stima la delusione è ancora più cocente. Ecco perché ringrazio che quando uscì Diatribes ero ancora un bambino, perché non credo avrei preso bene il fatto di sentire i Napalm Death produrre un disco simile. Diatribes NON è un disco dei Napalm Death, almeno non di quelli normali, quelli che in venti minuti ti scoperchiavano il cranio e ci vomitavano dentro prendendoti nel frattempo a ceffoni. Groovy oltre il limite sopportabile, a tratti industrial, pare di sentire i Fear Factory, con la “sola” differenza che i FF sono nati per fare questo genere, è nel loro DNA e infatti per un pezzo ci hanno dato dentro (che poi si siano rincoglioniti è un altro discorso). I Napalm Death no. Non voglio fare il defender che sputa in faccia alla sperimentazione, ci mancherebbe. Ma qui si percepisce nettamente il disagio di una band che si trova per le mani qualcosa che non conosce e che, probabilmente, neanche gli interessa conoscere. Non c’è nemmeno una canzone sotto i 3 minuti il che, per il gruppo che ha fondamentalmente inventato il grindcore, è grave assai. Aridatece il blast beat e gli schiaffoni, tanti auguri ‘sto cazzo.

 

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NOFX – Heavy Petting Zoo

Trainspotting: Per molti miei coetanei, i NOFX rappresentano l’adolescenza (e giù di lì) forse più di qualsiasi altro gruppo. Io li ascoltavo sempre con Roberta e Luciano nel pandino di quest’ultimo, vera punkmobile nello spirito oltre che nell’aspetto. E i NOFX rimarranno sempre legati a quel periodo, anche perché solo la testa di un adolescente può apprezzarli così tanto senza farsi troppi patemi o domande inevitabili riascoltandoli adesso. Questo non è per niente il loro migliore, ma è il primo che ho ascoltato – e poi c’è August 8th.

 

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MINISTRY – Filth Pig

Ciccio Russo: Il sesto lp dei Ministry rispetta tutti i tòpoi dell’album sbagliato che incasina una carriera. Viene dopo un successo in parte inatteso, Psalm 69, il quale aveva, di conseguenza, fatto perdere del tutto la trebisonda a una gruppo già segnato da devastanti problemi di droga che il relativo flop di Filth Pig non farà che esacerbare ulteriormente, se possibile (Al Jourgensen sostiene di non ricordarsi nemmeno di aver registrato il successivo Dark Side of the Spoon, durante il quale la sua dipendenza dall’eroina toccò il definitivo punto di non ritorno). Pubblico e critica non gradirono troppo. Posto che è impossibile affrontare questa fase della carriera dei Ministry senza partire dall’ormai totale perdita di controllo di un frontman schiavo dell’ago da almeno un decennio, Filth Pig fu prima di tutto un disco spiazzante. Per Jourgensen e Barker sarebbe stato molto più comodo e semplice incidere un Plasm 69 part II, soprattutto in una fase che vedeva certe sonorità definitivamente sdoganate presso il pubblico metal generalista in seguito al botto di Demanufacture. La componente industrial viene invece ridotta al minimo sindacale. C’è una batteria vera, ci sono pezzi più rallentati e lineari, c’è un recupero di quell’anima new wave storta alla Killing Joke che aveva caratterizzato i primi lavori della band. Riascoltato oggi, è molto meglio di come lo ricordassi, e non solo in confronto alla pantomima un po’ triste che sono diventati i Ministry oggi, tra proclami politici da assemblea di istituto e album d’addio mai rivelatisi tali, ché le bollette le deve pagare pure Jourgensen.

 

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SWANS – Soundtracks for the Blind

Enrico: Nessuno meglio di Michael Gira può legittimamente ergersi ad aedo del secolo buio che ci siamo lasciati alle spalle. La sua poetica crepuscolare trova in Soundtracks For The Blind una sublimazione definitiva, personalissima e universale al tempo stesso. Nel 1996 gli Swans e il loro leader sono ormai un’entità indivisibile: la formazione è composta da turnisti di primissima scelta, funzionali ad assecondare le bizze creative del deus ex machina californiano, e perfino Jarboe, alter ego luminoso di Gira, rimane confinata dalla personalità dominante dell’oscuro compagno. Soundtracks For The Blind viene concepito come l’epitaffio di una carriera costellata di capolavori. Attraverso due ore e mezzo di stream of consciousness musicale, Michael Gira riversa tutto se stesso nella costruzione di un’impalcatura sonora estremamente eterogenea, tanto imponente nella struttura quanto intimista nei contenuti. Soundtracks for the Blind appare come una summa del Gira-pensiero, magnifico compendio di ciò che gli Swans avevano composto nel quindicennio precedente. Tra stranianti ballate (Helpless Child), deflagrazioni apocalittiche (Yrp) e cascate drone (I Love You This Much), il canto dei Cigni si staglia puro e terribile su un mondo in rovina. Poi sarà la rottura, il silenzio e una pausa durata fino alla reunion del 2010. Ma questa è un’altra storia.

 

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FIRE + ICE – Rûna

Charles: Per la serie gente che la prende veramente sul serio, c’è da segnalare Ian Read e i suoi Fire + Ice, act fondamentale per tutti coloro che amano districarsi tra le variopinte ideologie tipiche del mondo neofolk, anche se nei fatti è tra i meno conosciuti. Lasciati i Sol Invictus dopo una collaborazione di qualche anno, nei primi anni ’90 Read decide di fondare questo gruppo per dedicarsi in modo ancora più esclusivo e uncompromised alla magia, l’occultismo, il paganesimo, l’odinismo ed altre sofisticherie runiche e diffondere il suo sapere attraverso la musica. Read, che oggi è anche Rune Master dell’ordine iniziatico del Rune-Gild e quadro dirigente della confraternita occulta internazionale degli Illuminati di Thanateros, nel ’96 pubblica Rûna, quello che è considerato il disco più ispirato e forse il migliore della carriera. Sicuramente andrebbe approcciato badando più alla sostanza delle tematiche, ai testi e alle galdrar (poesie rituali composte in quartine) scritte da lui medesimo, che agli aspetti strettamente musicali, ma credo che anche un ascoltatore distratto o semplicemente poco interessato alla dottrina germanica della rinascita e ai rituali della magia del caos non potrà che apprezzarne le melodie.

 

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BLOOD AXIS – The Gospel of Inhumanity

Charles: Uno che con i Fire + Ice ha pure collaborato è Michael Moynihan, famoso nella comunità metallara più per essere il co-autore, insieme a Didrik Søderlind, del libro Lord of Chaos: The Bloody Rise of the Satanic Metal Underground che per meriti musicali in senso stretto. Per il resto è un personaggio a metà tra gli antifascisti che lo accusano di essere fascista e i nazisti che lo accusano di non esserlo abbastanza. Qui adesso ci interessa perché fondatore dei Blood Axis, gruppo neofolk industrial di ispirazione nietzscheana, che in quell’anno produce il primo full The Gospel of Inhumanity, album non facilmente digeribile che vede ancora un forte sbilanciamento verso gli aspetti ideologici (citazioni da Nietszche stesso e da Longfellow, inserimento di registrazioni vocali di Ezra Pound e Charles Manson) che quelli artistici, che comunque verranno in seguito presi in maggior considerazione con l’evoluzione del suono in un senso più strettamente folk e decisamente più godibile.

 

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