Avere vent’anni: ottobre 1995

ANTHRAX – Stomp 442

Ciccio Russo: Sound of White Noise era stato un mezzo miracolo. In piena febbre di Seattle, gli Anthrax imparano un paio di trucchetti dal black album, che aveva sancito il definitivo esaurimento del thrash, mettono dietro il microfono uno straordinario John Bush e tirano fuori uno dei loro lavori migliori di sempre, dimostrando che la vecchia guardia è ancora viva e riesce ad adattarsi ai tempi nuovi senza necessariamente risultare ridicola. Purtroppo due anni dopo, perso Dan Spitz, i newyorchesi provano a indurire il suono, secondo la moda dell’epoca, ma il risultato, invece di essere aggressivo e roccioso, risulta solo sterile e noioso, anche perché la melodia viene sacrificata in modo eccessivo, se si eccettua il malriuscito esperimento grunge acustico di Bare. La doppietta d’attacco Random acts of senseless violence e Fueled è fantastica, da libro d’oro delle canzoni fighe dei dischi sfigati. Già dalla successiva King Size, dove Dimebag Darrell è ospite con un assolo, la palpebra si abbassa, i brani si appiattiscono e gli Anthrax bruciano grossa parte del credito accumulato con lo splendido lp precedente. Una colossale occasione mancata. Da un certo punto di vista, in Stomp 442 sono già piantati i semi della vigliacca reunion con Joey Belladonna. Poi, vabbè, essendo un talebano di Bush, è chiaro che ogni tanto me lo riascolto.

Il Messicano: Dopo il precedente Sound of White Noise, che faceva già discretamente schifo, gli Anthrax si diedero il colpo di grazia con questo mattone sui coglioni. Il metal, per ciò che riguarda le vendite di un certo rilievo, era ormai out da qualche anno. Se escludiamo i Pantera, unica voce fuori dal coro all’apice proprio in quel periodo, gli idoli dei giovani molto trasgry erano i gruppi grunge più famosi, tra l’altro ormai “uscenti” anche loro, e i primi gruppi crossover (nel senso più moderno e anche sbagliato della definizione) e new metal (si, new, prima che diventasse nu), che ai tempi erano il nuovo che avanzava. I Nostri, che avevano ex mogli, puttane ed amanti da mantenere e cocaina da tirare tre volte al giorno per reggersi in piedi, decisero di tentare di unire tutta la roba sopracitata (Pantera compresi) sperando di fare il botto e venne fuori ‘sto schizzo di diarrea, pus e sangue sul muro del bagno della stazione centrale di Caracas. Fu la loro fine. Uno dei dischi più vergognosi, insulsi e brutti degli anni novanta.
P.s. – Inizialmente non avrei dovuto parlare del disco in questione in questa puntata, ma siccome avevo il dubbio che qualcuno avrebbe potuto parlare bene di questo aborto eseguito a calci nello stomaco nel retro di una bisca, ho preferito prevenire, per dare a questa porcheria almeno un po’ della merda che merita.

DEFTONES – Adrenaline

Stefano Greco: Superock era un programma televisivo di MTV che andava in onda a tarda notte domenica sera, passavano video di generica area hard & heavy ma l’attrattiva principale era la conduttrice Julia Valet, la modella che dal suo elegante boudoir annunciava con tono suadente la programmazione e bagnava i successivi sogni del pubblico. Il mio primo approccio con i Deftones avvenne tramite questa trasmissione, il video era Bored e mi piacque fin da subito nella sua capacità di mettere insieme spleen adolescenziale, chitarroni crossover e tutto l’armamentario skater/California al quale ero da sempre suscettibile. In Adrenaline i Deftones sono ancora molto distanti dallo stile maturo che svilupperanno da White Pony in avanti, i vari elementi che compongono il loro sound sono già presenti ma sono ancora piuttosto grezzi e giustapposti più che realmente amalgamati. Nonostante per un periodo ci sia uscito scemo mi sembra che oggi Adrenaline sia divenuto in una certa misura dispensabile, presi singolarmente i vari pezzi sono ancora fichi ma quello che verrà dopo ha tutto un altro stile e profondità. 

G//Z/R – Plastic Planet

Charles: All’epoca del primo full si chiamavano così, poi finirono per semplificare la faccenda in un più classico Geezer. Anno orribile per Tony, Ozzy e Geezer il 1995. Il primo marca il peggior disco dei Sabbath fino a chiusura battenti; il secondo lo vedremo tra poco; il terzo se ne esce con un disco solista insieme a suo nipote alla chitarra, il batterista di Ozzy e il cantante dei Fear Factory (fu grazie a questo disco che mi avvicinai a Demanufacture e a tutto il resto). Un album invero bruttino che, a parte le prime quattro tracce piuttosto decenti, si fa dimenticare prestissimo. Che già insieme a Burton C. Bell questo progetto di industrial metal mezzo rappato aveva poco senso di esistere, figuriamoci quando quello se ne andò via.

OZZY OSBOURNE – Ozzmosis

Charles: Se Geezer aveva Bell dalla sua, Ozzy ci aveva Zakk Wylde (nonché lo stesso Geezer) senza il quale questo disco avrebbe avuto ancora meno dignità di portare quel marchio. Eh già, il fil rouge della faccenda di sabbathiani ed ex-sabbathiani è proprio questo: è arrivata l’ora di chiudere baracca. Così fu anche per Ozzy che chiuse le casse fino al successivo Down to Earth del 2001. E neanche Rick Wakeman riuscì nell’impresa di nobilitare un progetto ormai stanco. A dire il vero quello di Ozzy fu un ultimo tentativo molto più convincente dei ‘progetti solisti’ dei rispettivi compari. Nonostante di metal in senso stretto vi siano tipo due o tre pezzi (Thunder Underground soprattutto, grazie alla quale scoprii che dietro Wylde c’era un bel mondo fatto di chitarroni grassi che abbisognava del mio approfondimento), Ozzmosis si ricorderà per i singoloni sdolcinati da acchiappo estivo alla Aerosmith tipo la meravigliosa I Just Want You, Ghost Behind My Eyes e See You on the Other Side.

BATHORY – Octagon

Trainspotting: Non ascoltavo Octagon da una dozzina d’anni almeno e lo ricordavo come una boiata immonda, ma devo ammettere che è meglio di come me lo ricordassi. Se ci si astrae dall’ovvio pensiero che questi sono i BATHORY e che questo disco è arrivato dopo tutto quel ben di Fenrir, alla fine ho sentito decisamente di peggio e addirittura – sentite che vi dico – in certi momenti spinge pure abbastanza. Sembrano un gruppo thrash tedesco di quarta mano prodotto da un babbuino cocainomane, ma per qualche motivo questa slayerata dei poveri prende a simpatia. Ridategli un’altra occasione pure voi, non si sa mai. 

VED BUENS ENDE – Written In Waters

Giuliano D’Amico: A volte penso che le cose riescano meglio quando non si hanno mezzi e possibilità. Non è una questione nostalgica – si stava meglio quando si stava peggio – e viene, di regola, smentita dai fatti: con più soldi, più tempo, più dedizione di solito si fa meglio. Eppure non riesco a levarmi dalla testa che Written in Waters, l’unico “vero” album che i Ved Buens Ende riuscirono a partorire nella loro breve vita, non sarebbe potuto venire meglio che nelle condizioni in cui è stato concepito e creato. Certo, la batteria è un fustino del Dixan, gli effetti della chitarra sono terrificanti, e qualche ora in più sugli arrangiamenti non avrebbe guastato. Ma a vent’anni di distanza non riesco a trovare chi – a cominciare dagli Arcturus per finire ai Ne Obliviscaris, giusto per fare due nomi a caso – sia riuscito a superare Written in Waters per ispirazione, follia, sentimento e capacità di rompere gli schemi. Robe da André Breton e La Révolution surréaliste. It’s magic, Autumn Leaves (ma chi era capace di pensare titoli così nel 1995?) – come ricrearle con le stesse premesse storico-artistiche e materiali dei norvegesi? Non si saprebbe nemmeno da dove cominciare. Ci hanno provato in tanti, in primo luogo gli stessi ex-membri: con i Virus (che si sono persi per strada), i Code (onesti mestieranti), recentemente i redivivi DHG (il cui A Umbra Omega ricorda molto più i Ved Buens Ende che non i dischi dei DHG stessi). Ma c’è poco da fare: oltre allo scimmiottamento non va nessuno. Probabilmente, a ognuno di questi gruppi manca la triade magica: Vicotnik (anche in DHG e Code) a chitarra e voce, Skoll (Ulver, Arcturus) al basso e Carl-Michael Eide (anche in DHG e Aura Noir) alla batteria. Ora il capitolo pare definitivamente chiuso. Può darsi che sia meglio così – se mai i Ved Buens Ende si sono resi conto del valore di ciò che hanno creato, non credo che saprebbero da dove (ri)cominciare.

D.R.I. – Full Speed Ahead

Il Messicano: Questi non si limitarono, ad oltre dieci anni dall’esordio, a tirare fuori un disco semplicemente dignitoso, cosa che sarebbe stata già ottima vista l’aria che tirava in quel periodo, ma spararono in faccia a chiunque questa discreta botta sul cranio. Fu il loro disco della “maturità”, in un certo senso, pur non essendo il loro migliore. Suonano ancora in giro, ma questo fu l’ultimo album in studio. Forse è stato meglio così.

PULP – Different Class

Trainspotting: Questi andavano tantissimo quando andavo al liceo, e in effetti Different Class è un bel disco e lui era pure un bel personaggio. Qui c’è un capolavoro, Disco 2000, che ha oscurato tutto il resto a tal punto che oltre a quella e Common People non ne ricordavo più una nota. È bastato un solo ascolto per riportare tutto alla mente, compreso l’odore della Panda verde del mio compagno di classe dentro cui ho ascoltato Different Class almeno cento volte. Jarvis Cocker faceva (e fa ancora, alla sua età!) il dandy scapigliato intellettualoide e la gente ci cascava (e ci cascano ancora, alla loro età!), però il disco è bellissimo ascoltato anche oggi.

MR. BUNGLE – Disco Volante

Charles: I Mr. Bungle non nascono come un ‘gruppo cazzeggio’ di musicisti già affermati, ma come una qualsiasi altra band di ragazzini passando, quindi, in mezzo a differenti fasi di prove e tentativi. Il successo verrà dopo, fondamentalmente quando uno di loro in particolare riuscirà ad affermarsi facendo leva sulla propria originalità e follia. Il Patton diciassettenne ci verrà descritto dai futuri colleghi (Faith No More) come un viziatello un po’ scoppiato ma tutto sommato bravo guaglione che tipo neanche si faceva le canne. Ritroveremo quella follia, sua e dei suoi sodali Trevor Dunn e Trey Spruance, in ciò che avverrà dopo: i Fantômas (quello sì, un lussuoso ‘gruppo cazzeggio’ di big), le collaborazioni in pianta più o meno stabile in Melvins, FNM, i millemila progetti e così via. Dagli esordi simil-death metal alle successive incasinatissime sperimentazioni zappiane, si finisce qui nel calderone lucido e surreale di Disco Volante: minimalista, copro-noisy, jazzy-hc, surf-swing, praticamente un aborto all’ottavo mese. Personalmente, di questo disco non ho mai capito il senso fino in fondo (o forse non c’è niente da capire) e i Mr. Bungle che ascolto con maggior frequenza sono quelli del più abbordabile California. Però Disco Volante contiene alcune chicche deliziose che solo una mente disturbata poteva concepire, tipo Carry Stress In The Jaw – ispirato al Berenice di Edgar Allan Poe, di cui contiene alcune citazioni – e Violenza Domestica, breve opera drammatica e cinematografica. Robe così non se ne fanno tutti i giorni. I denti non possono dire niente senza la lingua, perché la tua lingua è mia, mia, MIA!

TANKARD – The Tankard

Il Messicano: Non verrà ricordato come il miglior disco dei Tankard, anzi. E’ anche abbastanza “melodico” per i loro standard, tra l’altro, ma è comunque carino e poi, oh, gente che inneggia alle sbronze e al casino da oltre trent’anni merita solo rispetto sempre e comunque.

THE SMASHING PUMPKINS – Mellon Collie And The Infinite Sadness

Stefano Greco: L’unico motivo per cui comprai Mellon Collie è che non volevo tornarmene a casa a mani vuote dalla mia consueta visita al negozio di dischi. Non avevo trovato nulla che mi interessasse particolarmente e quindi la scelta cadde su questo senza nessun motivo particolare. Anzi, gli Smashing Pumpkins mi stavano anche un po’ antipatici, non lo so perché, forse il cantante non aveva i capelli abbastanza lunghi, forse mi sembravano male assortiti (una donna e un cinese?), boh, c’era qualcosa che non mi convinceva. Tutto potevo credere tranne che stessi portando a casa l’ennesimo disco della vita targato 1995. Che si trattasse di un album gigantesco però me ne accorsi abbastanza in fretta, giusto il tempo di ascoltare Tonight, Tonight ed essere lanciati per due ore e passa in un saliscendi emozionale in cui si abbaia, si piange, ce la si prende con il padreterno, con se stessi e poi si ricomincia il giro daccapo. Billy Corgan è ispirato a livelli disumani, nessun altro si potrebbe permettere di raccontarti che love is suicide senza passare per ridicolo o fasullo. Mellon Collie è talmente legato al mio vissuto personale che a risentirlo oggi è sempre bellissimo ma ha perso un po’ il suo significato. Il capitolo che è stato chiuso mentre lo ascoltavo ha avuto come effetto collaterale un distacco emotivo dal disco stesso. In un certo senso mi piacerebbe fosse possibile riascoltarlo con le orecchie dell’epoca, un po’ alla stessa maniera in cui sarebbe bello per un’ultima volta svegliarsi la mattina del 25 dicembre per controllare se Babbo Natale abbia lasciato i regali e bevuto il bicchiere di vino sul tavolo in salotto.

IRON MAIDEN – The X Factor

Charles: Ne ha già lungamente trattato Roberto dicendo, peraltro, tante cose e molto giuste, quindi mi limiterò a poche battute perché sono praticamente d’accordo con lui all’80%. Non convengo su quattro punti:

  1. Blaze Bayley sarà pure una bravissima persona ma a me non ispira né simpatia né un cazzo di niente;
  2. aver preso Blaze Bayley è la più grande stronzata mai fatta dai Maiden (ovvero, come deformare un disco sublime e deturpare dal vivo vecchi capolavori immortali facendoli eseguire da un cane latrante). Io riesco ad immaginarmi questo disco solo cantato da Dickinson;
  3. The X Factor è la più grande occasione sprecata da Steve Harris (sicuramente l’ultima della sua vita) di scrivere un altro capitolo definitivo nel libro della storia del rock;
  4. il ritorno di Bruce Dickinson, quantomeno, ci ha portato un bel disco cantato bene (Brave New World) e la possibilità di andare a un concerto dei Maiden e godere di quei vecchi capolavori immortali di cui sopra senza rischiare di morire affogati nel proprio vomito.

MARILYN MANSON – Smells Like Children

Trainspotting: A me piace tantissimo il Marilyn Manson dei primi due dischi, ma questo ep uscito nel mezzo era veramente una spudoratissima presa per il culo per spillare quattro spiccioli dalle tasche dei suoi fan minorenni. Mortacci tua, sono passati vent’anni e ora te lo posso dire, MORTACCI TUA! per avermi fatto spendere i soldi della mia paghetta per questa puttanata, cinquantaquattro minuti di NULLA a parte la cover di Sweet Dreams che tanto per quanto me l’hanno fatta sentire in vita mia mi è venuta pure a noia, mortacci de te e di tutto il synthpop anni ottanta, che ne hai coverizzate talmente tante in vita tua di quelle poracciate che hai contribuito a farle tornare di moda, tu non sai quanti danni che hai fatto. Cinquantaquattro minuti di NULLA ma il minutaggio giusto per farlo pagare come un disco intero, che lo si chiamava ep giusto perché poi di musica (?) effettiva era forse meno di un terzo e il pezzo forte era una cover di quegli stronzi degli Eurythmics. Te la sei meritata tutta la finaccia che hai fatto e no, pezzo di somaro, tu non sei uno stupido e lo sai benissimo che quello che hai costruito è NIENTE. Come questo ep . Mortacci tua e di chi non te lo dice saltellando.

OASIS – (What’s The Story) Morning Glory?

Il Messicano: È legittimo odiare gli Oasis per un over 30 amante della musica dura. Durante i loro anni d’oro te li piazzavano ovunque: tv, radio, locali, cessi pubblici, bordelli, supermercati, salcazzi vari. Cioè, dai, vaffanculo. Non credo esista un essere umano della mia generazione che non abbia ascoltato involontariamente da qualche parte, ad esempio, Wonderwall. A volte, però, bisogna provare ad andare oltre. Questo è un discreto album pop-rock da mettere in macchina a volume intermedio quando porti in giro qualche gallina che non sa nemmeno chi siano gli Slayer, ma che ha comunque la giusta dose di spensieratezza per fare un giro in auto una domenica pomeriggio autunnale, andare sino al mare dicendo solo cazzate per finire a scopare sotto una barca rovesciata in spiaggia, che poi, ok, fa freddino e la sabbia ti entra pure nel culo, ma va bene lo stesso. È ok anche se lei è più piccola di voi, tanto con questo disco vi sentirete dei ragazzetti con l’elettricità che schizza dalla cima dei capelli alle punte dei piedi e ritorno senza sosta e sprofonderete nelle rigogliose borracce della giovinetta. Ma poi, oh, quanto è bella la title track?

SUMMONING – Minas Morgul

Charles: Per quanto mi riguarda Minas Morgul è lo stadio ultimo nell’evoluzione del black metal. Ok, l’anno successivo ci sarà pure Blood On Ice e …En their medh riki fara… e negli anni a venire anche altre robine buone nel genere, ma per il punto di arrivo e di non ritorno ci siamo quasi, insomma. Non c’è altro da dire. Questo disco è la perfezione e le sue note sono le uniche che l’umanità intera dovrebbe avere in testa quando pensa, accenna, cita, legge o parla a proposito del libro di Tolkien. Invece non è così e il fatto che l’esistenza di Minas Morgul sia così poco nota è una grandissima ingiustizia. Non a caso, viviamo in un mondo di merda.

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