Avere vent’anni: SUMMONING – Minas Morgul

Non voglio essere banale, ma è veramente difficile parlare di questo disco. È difficile parlare dei Summoning in generale, perché sono il gruppo meno normale che esista. Non c’è nessuno che abbia mai suonato come loro, e di sicuro nessuno potrebbe mai provare a replicarne l’atmosfera: amare i Summoning è esclusivamente una questione di sensibilità, devono riuscire a toccarti certe corde che non è neanche detto che tutti abbiano. Minas Morgul è il loro secondo disco, e l’indiscusso capolavoro insuperato. Il debutto, Lugburz, era ancora un passo interlocutorio verso la forma definitiva, necessario perché la loro linea evolutiva non era mai stata percorsa da nessuno. Il vero salto nel vuoto è la scelta di usare una drum machine, non semplicemente per sostituire un normale batterista ma per stravolgere completamente la propria musica sin dalla stessa struttura: senza la drum machine non avrebbero potuto costruire i pezzi intorno a quei peculiari ritmi, ma soprattutto è essenziale per creare quel suono distante, freddo, onirico, marziale, acronico, che trovi solo nei Summoning e che proprio in Minas Morgul trova il proprio apice. È molto difficile capire davvero questo album. Bisogna essere su quella lunghezza d’onda, saper cogliere i riferimenti per poter riuscire a calarsi in quell’immaginario, apprezzare determinate sfumature del black metal, ma soprattutto ci vuole tempo. Tanto tempo. I Summoning hanno bisogno di così tanti ascolti per essere apprezzati che a volte mi ci sono voluti anni per riuscire ad apprezzare una singola canzone; poi però diventa la canzone migliore del mondo. Questo peraltro è anche il motivo per cui non ho recensito l’ultimo Old Mornings Dawn, che pure era attesissimo perché erano sette anni che non facevano uscire niente: avevo bisogno di tempo quantomeno per capire se avrebbe potuto piacermi o meno. Per capire Minas Morgul ci ho messo almeno dieci anni, non sto scherzando, e ora lo canticchio in continuazione, batto il tempo con le mani in qualsiasi contesto, e soprattutto penso che sia il più bel disco di tutti i tempi. E i Summoning sono il più grande gruppo di tutti i tempi, quantomeno concettualmente, e nonostante i dischi veramente BELLI siano solo due (questo e Let Mortal Heroes Sing Your Fame), e negli altri ci sia solo qualche sprazzo qua e là. Le vette che sono riusciti a toccare sono talmente alte che, nonostante la maggior parte della loro discografia non sia per nulla a quei livelli, la media rimane comunque alta; oserei dire più alta di qualsiasi altro gruppo, ma poi la gente mi fraintende e si incazza. Io però lo penso davvero. Il fatto è che l’equilibrio su cui si fondano è talmente labile che è molto semplice andare fuori fuoco; è tutto basato sulla creazione di un’atmosfera rarefatta e delicatissima, ed è molto difficile riuscirci perché i mezzi adatti allo scopo sono di difficile maneggevolezza: produzione casalinga, melodie scarnissime, tecnica strumentale ai minimi termini, dilatazione dei tempi e delle strutture: non c’è molto intorno a cui giocare, non ci sono scorciatoie: se esce bene, è un capolavoro da far sentire agli alieni per dimostrare a che livello può arrivare la creatività umana; se esce male, esce male. 

Morgoth Fingolfin

I Summoning sono un progetto completamente incentrato su Tolkien, non solo da un punto di vista lirico; di Tolkien riescono a cogliere l’aspetto fiabesco e ingenuo, quello delle fiabe della tradizione mitteleuropea a cui l’autore inglese ha consacrato l’opera e la vita stessa, quello reso immortale e cristallizzato dall’astoricità, dalla lontananza nel tempo e nello spazio, che rimanda a delle sensazioni ancestrali così profondamente radicate dentro di noi che non sappiamo neanche dar loro un nome, e allora le raffiguriamo con le fiabe, la mitologia, la simbologia. Gli cambiamo forma, facciamo persino finta che non esistano, però stanno sempre là, e in qualche modo il minimalismo di Minas Morgul è funzionale a tutto ciò: in che altro modo rappresentare certi concetti talmente primordiali e semplici, il grado zero del subconscio collettivo, se non in questo modo? Si prenda ad esempio la meravigliosa The Passing of the Grey Company, con la sua melodia fanciullesca, quasi da carillon infantile, suonata con una tastierina da quattro soldi e dilatata al massimo fino a raggiungere i nove minuti di durata: se si modificasse in qualche modo, se a qualcuno venisse l’idea malsana di migliorarla o cambiarne anche di pochissimo l’impostazione, gli arrangiamenti o la produzione, verrebbe fuori una schifezza. Invece così è come un diamante grezzo, una roccia informe e sporca di terra e detriti al cui interno si nasconde la più pura e splendida delle gemme. Apprezzare i Summoning vuol dire saper riconoscere la gemma anche quando è nascosta nella roccia, senza porsi domande: solo osservando, osservando, ascoltando, con tutta la calma del mondo, senza fretta, con la consapevolezza che ogni minuto speso nella ricerca vale sicuramente di più un minuto speso in altro modo. Questo non è un gruppo che può essere ascoltato di sottofondo, o insieme agli amici bevendo una birra: ha bisogno di essere ascoltato con concentrazione, in solitudine, preferibilmente senza luce naturale, favorendo lo straniamento necessario perché esso possa essere veramente apprezzato. Morthond, forse la più tradizionale del disco, ha un’atmosfera spettrale che non funziona se non ti ci fai pervadere, alzando il volume al massimo quando parte quel doppio pedale mixato altissimo e innaturalmente preciso per via della drum machine e del suo suono robotico. Lungi da me mettermi a fare un track-by-track, o prendere a descrivere i vari pezzi come se stessimo parlando di un disco power metal; ma di Through the Forest of Dol Guldur vogliamo parlare? Se un giorno ci dovessimo incontrare e mi vedeste battere un ritmo con le mani e con i piedi sappiate che 2 su 3 ho Through the Forest of Dol Guldur nella testa, e probabilmente in quel momento – senza offesa – vorrei mollare tutto, tornare a casa e sentire quel pezzo estraniandomi dal mondo e dalle sue miserie. E non puoi distrarti con niente mentre senti i Summoning: ad esempio non puoi metterti a badare alla tecnica dei vari musicisti perché i musicisti non mostrano nessun tipo di tecnica a parte quella strettamente necessaria per ripetere quelle due confusissime note in croce ed evocare un’atmosfera capace letteralmente di rapirti via da questo mondo. L’astrazione totale è qualcosa che raramente riesce ad un artista, sia esso uno scrittore, un artista figurativo, o un musicista. Quando ero ragazzino e leggevo l’opera tolkieniana riuscivo a immergermici così tanto da dover fare fatica a pensare che quel mondo non esistesse sul serio, e tutti quei personaggi fossero inventati; con i Summoning è più o meno lo stesso. Minas Morgul è uno dei dieci dischi che porterei con me su un’isola deserta, e uno di quelli che mi rende fiero e felice non solo di essere metallaro, ma di essere quello che sono: perché è ciò che sono, le mie esperienze e il mio retroterra, non solo metallaro, a permettermi di capire i Summoning. Non tutti ci riescono, ma quelli che ci riescono non hanno bisogno di molto altro. Perdonatemi se sono stato confusionario e pure un po’ patetico, ma lo avevo detto all’inizio: è veramente difficile parlare di questo disco.

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