WINDHAND – Grief’s Infernal Flower (Relapse)

windhand_griefAl terzo album, i Windhand non sembrano ancora  aver capito bene dove andare a parare. Il precedente Soma, accolto da una selva di recensioni ultrapositive, mi aveva lasciato abbastanza perplesso. Le potenzialità si vedevano, per carità. L’ispirazione di base erano e restano gli Electric Wizard ma c’era una vena sessantiana fricchettona che distingueva il quartetto di Richmond dagli altri gruppi doom con voce femminile, filone sempre più affollato. Non ci sono gli ammennicoli esoterici dei vari (e comunque validissimi) Alunah o The Oath, per esempio. La brava Dorthia Cottrell non si dà arie da sacerdotessa pagana e si rifà piuttosto alle folksinger della tradizione americana. Che poi sarebbe il pedale sul quale i Windhand dovrebbero premere per distinguersi dagli altri quattordicimila gruppi con il santino di Jus Osborne nel portafogli. Perché il classico riff sabbathiano ripetuto uguale per dieci minuti non è cosa loro. Sembra facile ma non lo è. Prima di tutto lo devi azzeccare, e a volte loro non lo azzeccano proprio (Hyperion). In secondo luogo, se nei dischi death metal si deve sentire Satana, se copi gli Electric Wizard, si deve sentire la droga. E qua, purtroppo, non se ne sente tantissima. È più o meno il motivo per cui, alla fine, risultano più gradevoli cloni senza pretese come, che so, i Belzebong.

Se da una parte è proprio per la varietà di registri che Grief’s Infernal Flower regge per settantuno minuti senza annoiare troppo, dall’altra la sensazione è quella di una band che non riesce a costruirsi un’identità precisa. Ed è un peccato, perché se i Windhand saltassero il fosso potrebbero fare ottime cose. Del resto il chitarrista Aesechiah Bogdan, un ex Alabama Thunderpussy, era abituato a roba più diretta. Le canzoni migliori non sono infatti quelle di un quarto d’ora. Il singolo Crypt Key, più asciutto e arrangiato (hanno due chitarre, dovrebbero usarle) funziona benissimo, così come le acustiche AitionSparrow, nella quale Dorthia esprime la stessa languida desolazione di una Marissa Nadler. O la riuscita virata shoegaze di Tanngrisnir. E la produzione di Jack Endino serve meglio proprio questi pezzi, non quei brani strafattoni (le iniziali Two Urns e Forest Clouds) che richiederebbero suoni più fangosi. A Stefano Greco piacciono e, siccome Stefano Greco ha quasi sempre ragione, magari potrebbero piacere anche a voi. A me, sinceramente, non emozionano. (Ciccio Russo)

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