XXI AGGLUTINATION @Chiaromonte (PZ), 09.08.2015

We never cry for pain, we’re superheroes
We are back where we belong

Se il metallaro terrone non va all’Agglutination o non è un vero metallaro o non è un vero terrone. Mi dispiace Charles, ma così stanno le cose. Come diceva Joey DeMaio ”credetemi: questa è la verità”. Quest’anno si ritorna addirittura nella primordiale location di Chiaromonte, abbarbicata su una montagnola a ottocento metri sul livello del mare, in quel particolare angolo di Basilicata dove la densità di popolazione è circa una persona ogni dieci chilometri quadrati, con paesini di duemila abitanti separati da distese infinite di boschi, cinghiali e strisce d’asfalto che attraversano questo nulla sconfinato che sembra che ti guardi malmostoso, tu forestiero che ci passi in mezzo e non hai alcun motivo di essere qua. La Basilicata ha gli occhi. L’Agglutination si svolge in una zona così lontana da qualsiasi altra cosa che per arrivarci hai fondamentalmente tre opzioni: 1-macchinata 2-pullman organizzato 3-mezzi pubblici locali. E credetemi che tutte le suddette opzioni sono parecchio heavy metal. Io sono dieci anni che ci vado in macchina insieme al Messicano e al nostro affezionato compare Roberto Mancini, ma il mio primo Agglutination fu un’epica e maligna odissea della sfiga coi mezzi pubblici all’andata e il pullman al ritorno. Il più immediato corollario di tutto ciò è che se sei un habituè dell’Agglutination stai sicuro che nel Valhalla c’è già il posto riservato con il tuo nome scritto sopra.

Quest’anno si ritorna a Chiaromonte, ma non nel mitologico cortile della scuola media delle prime edizioni, bensì nel più umano campo sportivo, dove c’è l’erbetta e tutto è molto ordinato e carino. Purtroppo però ha piovuto per un paio d’ore nel primo pomeriggio, quindi le scarpe fanno cic-ciac, come nella legge di Gay-Lussac. Ci sono ampi teloni nella zona davanti al palco, fortunatamente, altrimenti nel pantano che si sarebbe formato ci avremmo trovato pure gli alligatori. Non che a noi cavalieri templari del vero metal gli alligatori facciano paura, eh, però insomma. Comunque l’edizione 2015 sarà per sempre ricordata per la ventina di immigrati africani che si aggiravano confusi per l’area del festival. Sì, ecco, come dire. Non saprei neanche da dove cominciare per spiegare la surrealtà della situazione. 

A quanto mi è stato riferito da un autoctono, parrebbe che questi siano ospiti di un centro di accoglienza lì vicino, gestito da suore che per qualche motivo gli hanno permesso di andare all’Agglutination a sentire la musica del demonio insieme agli uomini bianchi coi capelli lunghi e la panza. Era chiarissimo che questi non avevano la minima idea di dove si trovassero, del perché intorno a loro stesse succedendo quel che stava succedendo, del perché la gente si vestisse così male e portasse quei brutti capelli lunghi, ma soprattutto era chiarissimo che questi non avevano mai sentito neanche lontanamente qualcosa del genere in vita loro. Noi siamo arrivati piuttosto presto (non abbastanza per ascoltare ARTHEMIS, FELINE MELINDA e CARTHAGODS, però) e abbiamo potuto osservare lo sviluppo del loro comportamento e della loro interazione con l’ambiente esterno.

Il primo gruppo che vediamo sono dunque i FORGOTTEN TOMB, che immagino siano stati gli unici a essere contenti della pioggia. In teoria, assecondando il loro immaginario, i piacentini dovrebbero suonare in uno scantinato pieno di siringhe usate e con la puzza di piscio, merda e morte che ti rivolta le budella, ma, in mancanza di meglio, suonare sotto la pioggia in mezzo ai boschi in montagna è uno scenario che ti risolve sempre la situazione. Purtroppo il suono non rende loro giustizia; però tengono bene il palco, e per qualche motivo sembrano essere a proprio agio nella dimensione open-air diurna, molto di più di quanto il genere e il loro immaginario possano lasciar credere. Nel frattempo gli immigrati tendono ancora a girare in piccoli gruppi, senza allontanarsi troppo, ché non si sa mai quello che può succedere nella testa dei capelloni bianchi vestiti fuori moda. Questi magari tre mesi fa vivevano in una capanna o in chissà che situazione assurda dell’Africa equatoriale, poi rischiano l’osso del collo per venire qua, stanno dei mesi in un collegio di suore di Chiaromonte provincia di Potenza, e poi di botto vengono catapultati a sentire il depressive black metal. Non riescono neanche a muoversi a ritmo della musica, perché non hanno mai sentito prima nulla del genere. Qualcuno inizia a fare foto con lo smartphone. Ognuno di loro ha uno smartphone. Avrei pagato per sapere a cosa stessero pensando in quel momento.

I prossimi in scaletta sono i NECRODEATH, che non vedo da parecchi anni. Sono qui per festeggiare il trentennale, o giù di lì, e ripercorrono tutta la loro carriera con grande gioia degli astanti. In ogni festival dovrebbe esserci un gruppo slayeriano, altrimenti è come se mancasse qualcosa; si potrebbe chiamare la quota-Slayer o che so io, ma è una cosa che dovrebbe essere proprio specificata in locandina. L’altra cosa che dovrebbe esserci in ogni festival è una cover degli Iron Maiden, ma a quello penseranno parzialmente gli Edguy più tardi. Il gruppo di Peso e Flegias prende possesso del palco come se ci fosse il proprio nome scritto sopra, e nonostante qualche mancanza nella scaletta (The Creature, Red as Blood) esce a testa altissima dal confronto con gli altri gruppi prima e dopo di loro. Concluderanno la serata al chiosco delle birre, scambiando chiacchiere con i convenuti.

mica fagioli

mica fagioli

Il primo di quelli che a Sanremo si chiamerebbero ospiti internazionali sono gli INQUISITION, un nome che mi ricorda i numeri di Grind Zone degli anni novanta, nei quali se ne parlava con grande deferenza. Da allora tutto è cambiato, tranne gli Inquisition. Purtroppo non piove più, il che avrebbe valorizzato la loro performance, ma il duo colombiano viaggia a tremila come se niente fosse. Per qualche motivo ho pensato che starebbero bene al Roadburn. Non so se fosse della mia stessa opinione l’immigrato in maglietta bianca coi cuoricini che improvvisamente ho ritrovato a pogare sotto al palco: l’ho osservato per un po’ e mi sono accorto che riproduceva perfettamente i movimenti degli altri, senza fare niente di azzardato, che in quei frangenti potrebbe diventare pericoloso; per questo motivo si è mimetizzato perfettamente nella massa di uomini bianchi con le magliette brutte che si sbattevano su e giù per il pit. Chiaramente mi ci sono fiondato anche io, così che un giorno io possa dire ai miei nipotini che una volta ho pogato con un immigrato africano ad un festival metal sui monti lucani.

Gli EDGUY sono l’unico gruppo non estremo presente in scaletta, quantomeno oltre agli Arthemis. In questi casi c’è sempre un flebile rischio che qualche sveglione si metta a contestare, ma con Tobias Sammet di mezzo è praticamente impossibile che succeda. Lui la voce l’ha persa qualche secolo fa, ma non ha mai abbandonato quell’attitudine da intrattenitore di villaggio turistico che è perfetta per chi se li trova davanti a un qualche festival senza averli mai sentiti prima, o per chi magari non apprezza il power metal tetesco omosessuale. Peraltro sono qui per sostituire gli Angra, che hanno decisamente un altro tipo di approccio. Rispetto all’ultima volta Tobi non è in formissima, ma di sicuro pure stavolta qualche simpatizzante l’avrà guadagnato. Persino il Messicano alla fine mormorerà tra i denti un “beh dai, carini” che suona come un lasciapassare definitivo per la gloria. I pezzi dagli ultimi due trascurabili album ci sono, ma i vecchi cavalli di battaglia sono immancabili: Vain Glory Opera, King of Fools, Lavatory Love Machine, Tears of a Mandrake, Superheroes. Come al solito il finale di Babylon diventa un’occasione di cazzeggio senza soluzione di continuità, in cui Sammett canticchia tutte le canzoni italiane che gli vengono in mente, da Umberto Tozzi alla Nannini, oltre a un accenno di The Trooper che viene accolto con il boato più grande dell’Agglutination 2015. Per introdurre Save Me dice “è uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo: ecco a voi la prima e l’ultima pussy-ballad dell’intero festival”. La classe non è, decisamente, acqua.

Gli OBITUARY sono diventati, anche fisicamente, come il loro suono di chitarra: grassi, brutti, vecchi, sporchi e lenti. NOSTRI più che mai. Per me sono morti nel 1997 con Back From The Dead, il che è una bellissima morte; dopo la reunion hanno perso completamente l’atmosfera malata dei primi cinque album, ma rimangono sempre il classico gruppo che dal vivo rende sempre al massimo, e anche i nuovi pezzi sembrano avere più senso, ascoltati così. Purtroppo non hanno suonato Chopped in Half e neppure Threatening Skies, che durante il viaggio di andata in macchina avremo ascoltato circa quaranta volte, ma in sede live le già lievissime differenze stilistiche tra le varie canzoni tendono ad annullarsi, così che un concerto degli Obituary è sempre un concerto degli Obituary a prescindere dalla scaletta. In questo oggi sono aiutati dal suono nitido e potente, difficile da sentire in un festival all’aperto, e che del resto è uno dei punti di forza dell’Agglutination da parecchi anni a questa parte. In più John Tardy e compari ci mettono tutta la propria esperienza, come al solito, e a noi basta e avanza abbondantemente. Chissà se anche gli amici del centro di accoglienza sono della mia stessa opinione. Un saluto a loro, all’immortale Gerardo Cafaro (che il Capro ce lo preservi a lungo e in salute), a Erica che ha avuto il suo battesimo del fuoco, a Carmelo che mi ha rivelato che il prossimo 22 agosto suonano i Folkstone gratis in piazza nell’irraggiungibile Latronico (evento ai cui partecipanti verranno elargiti mille punti-Valhalla a testa), a Consalvo che appena è scattata Babylon l’ho perso ed è probabilmente morto sotto il pogo oppure offerto in sacrificio dagli africani al primordiale dio-cinghiale il cui culto è tuttora mantenuto vivo su certe montagne del potentino, e a tutti i convenuti. Tutti gli altri da Frosinone in giù, come ogni anno, non hanno alcuna giustificazione. (barg)

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