Avere vent’anni: marzo 1995

death

DEATH – Symbolic

Ciccio Russo: Non dimenticherò mai le sensazioni che provai la prima volta che ascoltai Symbolic. Avevo 14 anni, non possedevo ancora un lettore cd e avevo comprato la cassettina originale. Ero in pullman, stavo tornando da scuola a casa e, premuto il tasto play del walkman, sentii spalancarsi nella mia mente una porta su un altro mondo, uno straniamento quasi lovecraftiano. Avevo già iniziato a seguire il death metal da qualche mese (il battesimo di sangue era stato Covenant dei Morbid Angel) ma non avevo comunque mai ascoltato nulla di simile. Non era più solo questione di botta emotiva. Imparai a soffermarmi sul dispiegarsi dei singoli giri di basso, su ogni passaggio di batteria, su ogni accordo. Un anno dopo iniziai a suonare uno strumento. È ancora il mio disco preferito dei Death.

Luca Bonetta: Parlare di un disco come Symbolic in poche righe è un’impresa persa in partenza. Le cose da dire sarebbero tantissime e, a mio avviso, presuppongono un’analisi sommaria di ciò che i Death erano come band e di ciò che sono tutt’ora nell’immaginario di qualunque metallaro dotato di buon senso. Tutto quello che posso fare è limitarmi a dire che Symbolic è, per quanto mi riguarda, il lavoro migliore della band del buon Chuck, perlomeno per quanto concerne il secondo “periodo” della band. Crystal Mountain, Empty Words, Zero Tolerance sono alcuni dei brani migliori mai concepiti da mente umana, talmente avanti da risultare freschi pure oggi, a vent’anni suonati di distanza. Un disco semplicemente immenso di una band, concedetemi la retorica, scomparsa troppo presto, e la cui eredità è fondamentale per chiunque voglia approcciarsi al death metal nella veste di musicista e/o di semplice ascoltatore.

summoning lugburz

SUMMONING – Lugburz

Trainspotting: I Summoning, che sono uno dei più grandi gruppi mai esistiti, sono anche uno dei rarissimi casi in cui la discografia ideale parte col secondo album. Il debutto Lugburz ha buone idee e tutto, per carità, ma è in definitiva un disco black metal atmosferico come ce ne sono stati tanti, e tanti ce ne sarebbero stati. Ma soprattutto la batteria. I Summoning con la batteria sono come i Virgin Steele col dj che fa gli scratch, proprio una cosa tremenda da concepire. E infatti il primo album dei Summoning è Minas Morgul, facciamo i seri. Però Lugburz è un bel disco: riascoltatevelo, non sia mai scopriate di starvi perdendo qualcosa. 

MAD SEASON – Above

Stefano Greco: Di questo album aveva già parlato Charles con il dovuto trasporto agli albori del blog. A quanto espresso all’epoca c’è davvero poco da aggiungere, e il ricorrere dell’anniversario è solo un’altra buona scusa per ricordare uno di quei dischi senza i quali le nostre vite sarebbero assai più povere. Molto meno celebrato di alcuni album coevi delle rispettive band dei componenti, l’unico lavoro a firma Mad Season è per alcuni versi la sintesi estrema di quello che chiamavamo grunge, di cui rappresenta il lato più intimo, oscuro e doloroso. Above è uno di quegli album che ti qualifica come ascoltatore, la cui sola presenza è capace di dare dignità e credibilità ad una collezione. Long Gone Day è contemporaneamente apice ed epitaffio di una stagione brevissima, intensa ed irripetibile, che mentre sfornava i suoi capolavori stava già giungendo al termine.

Trainspotting: Si è già parlato abbastanza di questo disco qui su MS, ma ci tenevo a dire che Above è la colonna sonora perfetta per un certo tipo di hangover, quello funesto e depressivo che ti fa passare la voglia di alzarti dal letto, di respirare, di vivere, eccetera. Quel tipo di hangover in cui, per tirarti un po’ su, devi avere bisogno di sapere che c’è qualcuno che sta messo molto peggio di te. In questo senso l’opener Wake Up è la migliore amica che tu potresti avere, in quei momenti.

STEVE VAI – Alien Love Secrets

Cesare Carrozzi: Verso i diciott’anni qualcuno, non ricordo come, mi fece ascoltare un paio di pezzi di Passion And Warfare, credo Liberty, Ballerina 12/24 e sicuramente For The Love of God. Sono così certo di quest’ultima perchè se i primi due pezzi ad un primo ascolto erano tutto sommato così e così, su For The Love of God ebbi un mezzo mancamento e mi feci copiare il cd su cassetta (e chi ce l’aveva il lettore cd in quei tempi eroici). Inutile dire che quella cassetta consumò le testine del mio stereo a morte, e che a tutt’oggi Passion And Warfare, tolti quei due pezzi un po’ del cazzo tipo Alien Water Kiss e Love Secrets, non solo è uno dei miei album preferiti ma uno dei migliori album strumentali rock di tutti i tempi. Il consenso per quell’album fu talmente unanime che lo stesso Vai nel dargli un seguito fece male i suoi conti e, nel tentativo di risultare ancora più gradevole, diede alle stampe Sex and Religion, disco cantato che di sicuro non è il suo miglior lavoro (anzi) ma che va ricordato se non altro per aver portato alla ribalta Devin Townsend, che ne è il cantante, probabilmente bruciandogli il cervello nel processo. La popolarità di Steve Vai dopo quel disco subì un forte calo, ovviamente. Conscio di questo, il nostro un paio d’anni dopo decise di fare una radicale marcia indietro e, proprio per soddisfare gli appetiti chitarristici dei molti appassionati, se ne uscì con un ep che è rimasto uno degli episodi più fortunati della sua carriera, ovvero Alien Love Secrets, composto da sette tracce per un totale di poco più di mezz’ora di rock strumentale più scarno rispetto agli iperprodotti Passion and Warfare e Sex and Religion (tanto che su tre pezzi la batteria è programmata  – e pure male – dallo stesso Vai), ma che va ricordato più che altro per aver dato i natali ad uno dei più bei capolavori di Vai in assoluto, ovvero quella Tender Surrender, che vi allego in chiusura, che tanto successo ha riscosso tra il pubblico, al punto da diventare uno dei suoi cavalli di battaglia dal vivo. Tra alti e bassi dopo quell’ep la carriera di Steve Vai è continuata, e così la mia amicizia con lui. Non posso dire di essere il suo più grande ammiratore, ma sicuramente si tratta di un Artista con la A maiuscola e di uno dei chitarristi più influenti degli ultimi, boh, trent’anni. E dopotutto è colpa sua se ho anche un’Ibanez. E non è poco, vi assicuro.

TIMORIA – 2020 Speedball

Il Messicano: Uno dei pochi casi di gruppo rock italiano famoso furono proprio i vecchi Timoria, che con 2020 Speedball cacarono fuori il loro miglior lavoro di sempre o quasi. Niente da spartire con ciò che nel nostro triste paese viene definito rock, tipo Ligabue o i Modà, ma rock vero e proprio, così come lo conoscono in tutto il resto del pianeta, cantato in italiano. Va specificato questo dettaglio, dato che quando si parla di “rock italiano” da noi poi ti si parano davanti personaggi tristissimi, magari, che ne so, con i pantaloni strappati, che fanno pop di serie z per casalinghe annoiate mentre puliscono il bagno. Influenze settantiane, sia hard rock che vagamente prog, melodie come si deve e accenni addirittura al metal (Mi manca l’aria, tanto per citare il caso più eclatante): questo è 2020 Speedball.  Anni dopo Renga cominciò a fare canzoncine per estetiste in cerca dell’amore vero ma con una passione smisurata per il cazzo in bocca e sposò Ambra di Non è la rai, mentre Pedrini scrisse Sole spento, pezzo che per la massa divenne sinonimo di Timoria, ma ovviamente non era vero un cazzo. I Timoria erano questi qui.

MONSTER MAGN

MONSTER MAGNET – Dopes To Infinity

Stefano Greco: Esattamente a metà tra il grezzume iniziale e la svolta semplificatrice di Powertrip, Dopes To Infinity coglie una band in un momento di grazia assoluta. Uno di quegli album perfetti che necessiterebbero di un accurato track-by-track per analizzare la grandezza di ogni singolo pezzo e la sua funzionalità all’economia complessiva del lavoro. Ma qualsiasi analisi del genere finirebbe solo per essere un elenco stucchevole di superlativi assoluti, molto meglio prendere le cuffie e riascoltarlo tutto d’un fiato. Un’ora di immersione in una gigantesca lava lamp con gli amplificatori che fischiano. Droga & fumetti, psichedelia & fantascienza, una tonnellata di riff. Il migliore dei mondi possibili.

MORPHINE – Yes

“Thank you Palestrina. It’s a wonderful evening, it’s great to be here and I wanna dedicate you a super sexy song”.

Ciccio Russo: I Morphine sono uno dei miei gruppi “non metal” preferiti. Di quelli che si intrecciano al vissuto personale in maniera tale da rendere impossibile fare un discorso intelligente od obiettivo. Mi trasferii a Roma troppo tardi per assistere a quel concerto a Palestrina, nel ’99, durante il quale il cantante e bassista Mark Sandman fu stroncato da un attacco cardiaco. Quel giorno morì una delle band più originali degli anni ’90. Nonché la miglior colonna sonora possibile per una notte d’amore.

radiohead the bends

RADIOHEAD – The Bends

Trainspotting: È da un po’ che i Radiohead sono diventati campioni mondiali della musica che non ascoltiamo, ma una volta non erano così. Scoprii The Bends a causa di un mio compagno di classe, che un giorno si presentò a scuola eccitatissimo perché aveva comprato i primi due dischi di questo nuovo gruppo inglese che lui giurava essere uno spettacolo. “Robè ma questi non sono belli normale eh, questi sono spettacolari sul serio”, e ricordo ancora la sua espressione serissima mentre parlava. E che dire, aveva ragione. In alto i calici per te, indimenticato Lox.

FAITH NO MORE – King for a day… Fool For A Lifetime

Stefano Greco: Pochi mesi fa su facebook mi avevano invitato al giochino della lista con i dieci album per me più importanti dal punto di vista strettamente personale. Fra questi ho inserito King for a Day, che entrava in top ten in quanto punto di svolta. L’abusatissima (anche da me) espressione “questo disco mi ha cambiato la vita” nel caso specifico equivale a verità. I Faith No More già li conoscevo da tempo ma il loro essere inclassificabili cozzava pesantemente con la mia estrazione defender della prima ora, il preconcetto mi impediva di apprezzarli e probabilmente ne bollavo l’eclettismo come pretenziosità. Digging The Grave in rotazione su MTV è stato l’amo a cui abboccare, una qualche forma di epicità sui generis mischiata alle grida sguaiate di Mike Patton sono state il canto delle sirene che mi ha attratto in quella trappola eretica chiamata FNM. Per qualche tempo quello è stato l’unico brano che mi piacesse davvero dell’album, questo fino ad un pomeriggio in cui qualcosa nella mia testa ha fatto clic e ho ricevuto in omaggio un paio di orecchie nuove. King for a Day è l’album completo per eccellenza, riesce a passare dai travasi di bile al gospel in tre mosse, una cosa che a raccontarla pare una cazzata e invece quando l’ascolti fila tutto liscio e coerente. Da lì ho recuperato tutta la discografia precedente e per un lunghissimo periodo ho avuto serie difficoltà ad ascoltare qualsiasi altra cosa.

ATR

ATARI TEENAGE RIOT – Delete Yourself!

Trainspotting: Non so se ricordate Bruno Parisi, che ha scritto su Metal Shock per un periodo. È sparito dalla circolazione ma ci manca tantissimo. A me Delete Yourself! ricorda proprio un episodio nella macchina di Bruno, mentre andavamo a giocare a calcetto. Io sostenevo che per caricarsi prima della partita bisognava ascoltare il power metal, mentre lui ribatteva che invece la spinta migliore te la davano i Darkthrone, perché così entravi cattivo e ignorante come Jaap Stam. E insomma una volta nella sua macchina portai questo disco, sparato a manetta per tutto il tragitto: solo che ottenemmo l’effetto opposto, perché gli ATR possono caricarti solo se sei minorenne e/o strafatto di qualche innominabile droga sintetica; in caso contrario, al massimo ridi per una decina di minuti e poi tiri fuori il cd. All’inizio degli anni duemila poi si cercava addirittura per farli passare per dei folli geni sperimentatori, quando in realtà erano tre coatti di Berlino che provavano qualsiasi droga gli capitasse a tiro e che in definitiva erano più accostabili a dei gabber che a dei metallari, o punk, o rockettari. Dopo vent’anni ciò che rimane è il cd perfetto per fare incazzare i vicini di casa, e poco più. A conferma di ciò, intorno al 2003 vidi un concerto di Alec Empire all’aperto con i volumi più alti che abbia mai sentito. Chissà i vicini che hanno pensato.

Il Messicano: Sempre per la rubrica “Prendersi le palle a morsi per ricordare il mese preciso d’uscita dei dischi di vent’anni fa da trattare per avere vent’anni”, a ‘sto giro mi tocca Delete Yourself!, ovvero il primo album degli Atari Teenage Riot. Definiti nei modi più disparati, questi in pratica prendevano riff punk/hc/metal, li campionavano e ci aggiungevano basi elettroniche, urla belluine o discorsi vari. Insomma: l’ideale per drogarsi. Il disco è praticamente tutto così. Alec Empire, qualche anno dopo, sarebbe diventato una sorta di guru nichilista della mia sacca scrotale, ma questa è un’altra storia. Uno degli album ideali per quando siete “in botta”, anche se penso che non lo sarete mai, essendo voi metallarini di plastica bocconiani amanti dei gruppi con l’arpa campionata e le voci femminili, cioè di tutto ciò che non è roccherrò o medalz. E poi non si fa, eh. La droga è illegale e fa male. Piombo agli infami, gloria a noi.

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