MANILLA ROAD – The Blessed Curse (Golden Core)

Mi rendo conto che in 16 anni che scrivo di musica non ho mai parlato dei Manilla Road. È effettivamente difficile dire qualcosa di sensato su di loro, e di solito sull’argomento mi è sempre capitato di sentire fiumi di retorica stucchevole sull’elite del vero metallo che sola può capire l’essenza occulta dei Manilla Road eccetera. Avete presente, “questa è musica per pochi” e cose simili. L’unica recensione sensata che abbia letto (non ne leggo molte, in realtà, e qui sopra mi riferivo più che altro a discorsi da forum e da concerto) è stata quella del Carrozzi per Mysterium, in cui è stato detto grossomodo tutto quello che c’è da dire, cioè poco a livello musicale e tanto a livello attitudinale.

I Manilla Road esistono da, non so, circa trentacinque anni e hanno fatto sempre più o meno lo stesso disco, con varie sfumature diverse a seconda probabilmente dell’ispirazione del momento e dalle letture di Mark Shelton. Ad esempio il terzultimo Playground Of The Dead è più oscuro e malmostoso del solito, ma più che di cambio di direzione quella era quasi una raccolta di pezzi di quel genere tutti messi in un unico disco; tipo La Grande Danse Macabre e Panzer Division dei Marduk, se mi passate il paragone. Il loro non è un genere preciso, e l’etichettatura epic metal applicata a loro è più fuorviante che mai; in realtà i Manilla Road sono un gruppo di heavy metal classico dall’impronta tipicamente americana, senza particolari stilemi e cliché ripetibili, al contrario -per esempio- dei Manowar, degli Warlord o dei Candlemass. La loro musica è una rappresentazione sonora della sensibilità di Shelton, con tutto quello che ne consegue; e spesso sembra quasi che le sue influenze siano da ricercarsi non già in altri gruppi musicali ma direttamente nelle sue letture e nelle sue visioni. Lovecraft, la sword & sorcery, Weird Tales, i vecchi film di fantascienza con i pupazzi e il theremin, i fumetti di cinquant’anni fa, la Hammer: se qualcuno mi chiedesse come suonano i Manilla Road, difficilmente potrei rispondere senza fare una lista del genere. Io ho aggiunto tutti i membri del gruppo su facebook e non ci crederete, ma sono davvero così come ce li si è sempre immaginati: Shelton come immagine di copertina al momento ha il fumetto di Thor, giusto per fare un esempio. 

The Blessed Curse è, né più né meno, un disco dei Manilla Road. Chi si aspetta qualcosa di diverso non ha ben capito di cosa stiamo parlando. Se volessimo trovare una cifra stilistica particolare, potremmo parlare dei numerosi pezzi arpeggiati o comunque lenti, che i MR hanno da sempre nel loro repertorio ma che qui costituiscono forse la maggior parte del disco. Non mancano brani più veloci, che personalmente preferisco, tipo Kings of Invention o The Dead Still Speak, ma è sempre la stessa roba da trentacinque anni. La stessa, splendida roba da trentacinque magnifici anni.

Perché i Manilla Road, è il caso di specificarlo, sono uno dei gruppi migliori mai esistiti. Non condivido il giudizio negativo sulla voce di Shelton espresso da Carrozzi, ma sono gusti. Per me sarebbe impossibile pensare a un disco dei Manilla Road prodotto e registrato come Cristo comanda, figurarsi pensarlo cantato da un cantante normale. Qualche tempo fa sentivo il debutto di un gruppo epic metal americano chiamato VISIGOTH (moniker spettacolare, peraltro) in cui c’è una cover di Necropolis cantata, suonata e prodotta in un modo civile. Il disco era carino, ma ascoltare quella cover è stata una sofferenza fisica anche e soprattutto perché Necropolis è a parer mio la miglior canzone dei Manilla Road (quindi una delle migliori canzoni mai scritte). Comunque da qualche tempo anche Shelton si è piegato a chi, come il suddetto Carrozzi, non gradisce i suoi latrati; e ha quindi assoldato un altro tizio con cui alternarsi al microfono, tale Bryan ‘Hellroadie’ Patrick, che come cantante è un cane quasi quanto lo stesso Shelton e la cui voce somiglia a quella di quest’ultimo in modo quasi indistinguibile, e quindi non si capisce perché lo abbia preso; forse è un tizio che Shelton ha conosciuto a un’asta in cui svendevano scatoloni pieni di vecchi tascabili di fantascienza provenienti da qualche cantina allagata, o a qualche convention per fumettari, non so.

Quello che so è che Mark Shelton è UNO DI NOI. Se Metal Skunk fosse uno Stato, Shelton avrebbe la cittadinanza onoraria e probabilmente sarebbe pure titolare di qualche dicastero. Potrei spingermi più in là e gridare IF YOU DON’T LIKE MARK SHELTON YOU ARE NOT MY FRIEND ma nella vita ho imparato la tolleranza da quando ho scoperto che gente rispettabilissima e degna di stima è in realtà vegetariana. Quindi può anche darsi che siate persone perbene anche se non vi piacciono i Manilla Road e l’abbacchio alla scottadito, ma sarebbe meglio che i due fenomeni non si presentassero contemporaneamente. (barg)

signori e signore, la giustizia divina

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Post Scriptum: in conclusione dovrei parlarvi del secondo disco, chiamato After The Muse, lento e tendenzialmente acustico, che in teoria, se ho capito bene, sarebbe dovuto uscire addirittura come side-project. Non ho molto da dire però: non è roba assimilabile ai Manilla Road se non in minima parte, e i sei pezzi presenti (tra cui, doveroso segnalarlo, uno risalente al 1981) mi hanno annoiato ogni volta che ho provato ad ascoltarli. A quanto pare questo non è un bonus disc ma proprio un allegato all’album ufficiale; immagino quindi che non avrà un seguito.

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