KARMA TO BURN // APE SKULL // SIXTY SIX @Traffic, Roma, 1.01.2013

ktb

Ultimamente nei Karma To Burn sono successi un po’ di casini, che hanno portato alla sostituzione dell’intera sezione ritmica, lasciando William Mecum unico superstite della formazione che ci aveva fatto scapocciare all’Acid Fest appena un anno e mezzo prima.  Pochi mesi dopo Rob Oswald, il batterista dal look da senzatetto col crash due metri sopra il cielo, viene buttato fuori, a sua detta (traduco da quanto pubblicato sul suo profilo facebook all’epoca), per essere rimasto fermo sui suoi principi morali e aver fatto la cosa giusta. Se suonare significa dover essere un bugiardo e uno stronzo, preferisco di gran lunga andare in giro con le bestie, aveva chiosato. Non siamo a conoscenza di altri dettagli, né della versione dei fatti degli altri, quindi non traiamo alcuna conclusione. Sale a bordo il giovane, e talentosissimo, Evan Devine, con un passato in diverse formazioni blues e jazz della sweet home West Virginia. Nel frattempo escono un paio di live e, lo scorso aprile, un ep di sei tracce, pubblicato dalla Heavy Psych Sounds di Gabriele dei Black Rainbows. Poi arriva l’Hellfest, dove si presentano in due. A quanto pare, era venuto fuori che il bassista Rich Mullins, cassiere del gruppo, si imboscava i soldi del merchandising senza dividerli con i compagni (per spenderli tutti in droga, presumo), il che, comprensibilmente, non è stato preso benissimo dagli altri. Proprio in quei giorni Oswald, sempre su facebook, afferma che Rich stole a fuck load of money when I was in the band and most of it went to him and his wife’s california lifestyle e lo definisce l’essere umano più deprecabile che abbia mai conosciuto. Alè. Al basso arriva il rastone Rob Halkett e la band riparte per recuperare le date annullate nei mesi precedenti a causa delle antipatiche vicissitudini di cui sopra. E io sono dannatamente curioso di vedere come se la cavano i nuovi acquisti.

Per una volta, riesco a essere puntuale (è che di solito stacco alle 21, mica lo faccio apposta) e mi vedo per intero lo show del primo gruppo di supporto, i Sixty Six, giovane ensemble capitolino che si definisce stoned drunkest southern metal. Più che Down e affini, vengono però in mente i Pantera, ai quali si ispirano in modo marcatissimo. I riff, i ringhi anselmiani del cantante, l’incedere della batteria fanno pensare a una cover band dei texani che si sia messa a scrivere pezzi propri, al netto di qualche frangente più catchy e melodico dove si rifanno invece al nu metal macho e muscolare di Drowning Pool e Five Finger Death Punch. Trattandosi di una band assai giovane (è la prima volta – mea culpa – che li sento nominare) sono limiti perdonabili. Pur acerbi e derivativi, suonare sanno suonare e tengono bene il palco, quindi si sospende il giudizio e li si aspetta al varco tra un paio d’anni.

Si cambiano nettamente registro e atmosfere con gli Ape Skull, ormai un nome familiare per chi frequenta i palchi romani più strafattoni. Li avevo visti giusto un mesetto prima al Sinister. Questa volta, adattandosi al contesto, suonano più tosti e meno psichedelici, puntando sulle canzoni più tirate. Ho letteralmente consumato il loro debutto omonimo, che ha fatto parte della mia personale colonna sonora della scorsa estate e canticchio Lazy e So Deep (viva il campanaccio) quasi senza accorgermene, mentre mi scolo ancora un’altra birra con Charles, il fido Xabaras e un personaggio stimabilissimo, non uso a questi contesti, che, per tutelare la sua privacy, chiameremo lo Zithe. Lo Zithe sorride sempre, qualunque cosa accada (il che, nella vita, è molto importante); pur essendo una persona di elevata estrazione socioculturale, si trova perfettamente a suo agio in mezzo a noi rockettari untuosi e si diverte tantissimo, domandandomi se gli Ape Skull sono americani. No, sono più italiani della Cappella Sistina, ma la verità è che sono nati chi in California, chi in Inghilterra, sono morti soffocati nel proprio vomito nel ’67 durante l’afterparty di un concerto dei Cream e si sono successivamente reincarnati, continuando a suonare esattamente la stessa roba che andava all’epoca. Prima di chiudere con I Got No Time, snocciolano un pezzo nuovo, abbastanza aggressivo per i loro standard. Promossi come sempre. E se son garbathe pure allo Zithe...

Appena gli Ape Skull scendono dal palco, invito gli altri a precipitarsi fuori di gran lena ché così non ci fregano i posti sulle panche vicino ai biliardini. Lo Zithe mi prende in giro e mi dice che ho la crisi di mezza età, che ai debosciati come me, secondo lui, coglie subito dopo i trent’anni per mere ragioni di autoconservazione. La verità è che ho dormito tre ore perché ho scoperto Breaking Bad giusto una settimana fa e, ogni volta che posso, mi faccio le maratone notturne, cosa che nel breve periodo rischia di avere ripercussioni pesantissime sulla mia vita sentimentale e lavorativa. L’ho scoperto una settimana fa e sono già alla terza stagione. Immagino che qualcuno di voi potrà capirmi. Ma basta cazzate, che stanno attaccando i Karma To Burn. Partono con, credo, Nineteen (che io i brani dei Karma To Burn li riconosco pure, ma vatti a ricordare il titolo, dato che sono quasi sempre numeri) e le mie possibili perplessità sul repentino stravolgimento di line-up vengono subito spazzate via. Sono sempre una delle migliori live band sulla piazza, non ci stanno santi. La macchina del riff passa col rosso contromano e ti travolge senza nemmeno dirti buonasera. La scaletta pesca un po’ da tutta la discografia ma è interamente strumentale. In tempi di post rock über alles non sembra più una faccenda troppo bizzarra, ma ai tempi di Wild Wonderful Purgatory come idea era abbastanza allucinante. Halkett fa vedere lontano un miglio di essere strafelice di essere finito in uno dei gruppi più fichi del globo terracqueo (ebbene sì, sono di parte), si piazza sempre al limite del palco, scapocciando con noi. Inevitabile il paragone con la presenza scenica di Mullins, che smascellava, in preda al sovradosaggio di chissà quale stupefacente, con lo sguardo fisso di fronte a lui, inconsapevole persino di dove si trovasse. Né meglio, né peggio, però diversi. Meno sfascioni, più precisi, sempre irresistibili. Pure Mecum pare meno pisto del solito. E Devine alla batteria è stata davvero un’ottima scelta. Randellate di doppio pedale, rullante isterico ma controllato. Xabaras dice che si vede che viene da una scuola di musica, ma gli hanno imposto quel look. Secondo lui è più bravo di Oswald. Forse ha ragione. William cazzeggia con il pubblico, chiede due o tre volte do you want more? e la risposta è sempre yeah. Si va a casa con Twenty. Lo Zithe si fa pure la foto con il bassista. Un’altra anima conquistata a Satana.

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