BLACK SABBATH – 13

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Fabrizio “Doom” Socci – I miei due cents sulla questione 13 sono questi: tanto meno vi attendevate, tanto più vi piacerà. Se vi aspettavate un grandissimo album vi deluderà – non lo è – ma se temevate un’uscita capace di insultare la carriera di questa band, potrebbe sorprendervi molto positivamente. Col senno del poi, la cosa più razionale da attendersi era quanto si è effettivamente verificato visto che, anche se per strade separate, non si erano fermati né Iommi né Ozzy, e gli ultimi loro lavori erano validi (specialmente Fused di Iommi, da riscoprire se l’avete perso). I timori di disco orrendo erano quindi eccessivi, mentre le speranze di capolavoro erano decisamente poche già in partenza. Se tutti i gruppi invecchiassero così il metal sarebbe un genere migliore, e restano sempre preferibili questi pezzi cadenzati con i riff di Tony Iommi che molto di quello che si sente oggi in circolazione. Forse qualche canzone poteva durare un po’ meno,  ma globalmente l’ispirazione è buona e soprattutto costante per tutti i brani, perciò va più che bene così.  In conclusione, 13 è un un discreto lavoro che ci permette di dire che, sul loro terreno, nel 2013, i Sabbath sono in grado di esprimersi ai livelli dei migliori epigoni, con forse ancora qualcosa di più. Con buona pace di roboanti note delle case discografiche che parlano – a vanvera – di allievi che superano i maestri di Birmingham, vedasi Orchid. Unica nota di tristezza: mi sembra che l’assenza di Bill Ward stia passando troppo sotto silenzio, e in queste poche righe vorrei rimarcare che per me la reunion dei Black Sabbath non è completa senza di lui.

Stefano Greco – 13 era un rischio che potevano anche non prendersi, c’erano molteplici motivi per i quali in molti, me compreso, avrebbero preferito che questo album non avesse mai visto la luce. I motivi nello specifico si chiamano Fairies Wear Boots, Killing Yourself To Live, Snowblind e tutte le altre circa sessanta canzoni incise tra il ’70 e il ’78. Impossibile ricreare dopo trentacinque anni le condizioni in cui quei capolavori vennero scritti, soprattutto se si pensa che gli album dell’epoca erano tutti permeati da un qualche senso di malessere: erano dei morti di fame all’inizio e dei drogati megalomani alla fine, non le rockstar compiacenti ed appagate di oggi. Il metallo poi non è una roba per vecchi, quei giovani cani arrabbiati della più abietta periferia industriale sono oggi anziani signori con il villone e i nipotini in giardino, eppure… Eppure 13 è un disco serio, è evidente che ci si sono messi a lavorare con una certa dedizione, i pezzi sono costruiti e rifiniti con cura e le melodie sono articolate e tutt’altro che scontate. Ozzy in particolare ne esce benissimo e, per quanto mi riguarda, la sua prestazione é ciò che riesce a far fare il salto di qualità al disco, anche perché su gli altri personaggi coinvolti era difficile avere grossi dubbi. Geezer Butler è più o meno il migliore bassista rock di sempre, stile e possanza ancora inarrivabili. Tony Iommi invece è semplicemente una persona di un altro mondo: non ha mai sbagliato un riff in vita sua e il suo tocco maligno è rimasto intatto a distanza di decenni. Al contrario, sulla prova del madman si poteva essere quantomeno scettici: oltre ad essere quello fisicamente messo peggio, show televisivi e album trascurabili ne hanno con il tempo minato la credibilità. Per recuperarlo Rubin gli riserva lo stesso trattamento che aveva riservato a Hetfield su Death Magnetic (operazione del tutto simile a 13 ma dal risultato ben peggiore), cerca di smorzare alcuni aspetti tipici del suo modo di cantare oramai divenuti quasi caricaturali per restituirgli una certa autenticità, ci riesce abbastanza bene e in un paio di occasioni lo fa pure strillare come si deve.

L’album presenta più o meno tutto quello che è il generico campionario sabbathiano nelle sue varie sfumature, dall’archetipo doom (God Is Dead?) al brano più “radio” (Loner) fino ad una sorta di Planet Caravan #2 quale Zeitgeist (bellissima, tra l’altro); si potrebbe fare il giochino di sezionare i brani pezzo per pezzo per ritrovarne i riferimenti originali ma avendo passato gli ultimi mesi ad osannare varie band clone non posso ora imputare agli originali di suonare come loro stessi, sarei intellettualmente disonesto. 13 è un commiato eccellente, un album bello e credibile che ci ricorda ancora una volta come i Black Sabbath siano la cosa migliore mai prodotta nella storia dall’umanità. Visto come è andata, è davvero un peccato che Bill Ward non ne abbia fatto parte, lo avrebbe meritato.

Cesare Carrozzi – Lì per lì non è che me ne sia propriamente fregato qualcosa. Anzi, proprio niente. Cioè, pensavo una roba tipo: “Ok, reunion Black Sabbath, ovvero di ‘sti tre vecchi cazzoni bolliti, uno dei quali pure mezzo uscito dal cancro o quello che è, oltre ad un batterista preso a nolo, che di sicuro avranno tirato fuori lo straclassicissimo album della sfiga tanto perchè ad una certa quando ormai sei un riccone abbondantemente negli anta, hai viziatissimi figli agli enta che ti mandano affanculo un giorno sì e l’altro pure, tua moglie non te la scopi più (a parte che poi, dico, Sharon Osbourne chi cazzo se la sarebbe mai caricata da sobrio, in effetti? Sposarla poi…), le zoccole non te le scopi più che non ce la fai manco con un beverone di cialis e col vento a favore, bere non puoi bere che già ti sei giocato un po’ più di mezzo fegato, drogarti manco a parlarne che rischi che se ti fai appena mezzo tiro di coca ti viene la tachicardia e rischi il colpo apoplettico, ed ecco ti rimane solo d’attaccarti allo strumento e tirare forte tanto per passare il tempo e dare alle stampe, appunto, il disco di merda da vecchio rincoglionito qual sei.”

Insomma, stavo un po’ così. In più fa caldo. Ma caldo caldo. Il cielo blu, il sole, l’estate. Non è il clima per ascoltare i Black Sabbath, non so se mi spiego.

E vabbè, poi End Of The Beginning m’è piaciuta. Niente da gridare al miracolo, per carità. Però insomma, m’ha vagamente fatto venire in mente Black Sabbath (la canzone), che per quanto mi riguarda non è affatto una brutta cosa, anzi. Lunghetta, cadenzata, i soliti tre accordi dissonanti che hanno fatto la storia, il cambio di ritmo in mezzo al pezzo, la voce di Ozzy, tutto quadrava, tutto era a posto. Sicché alla fine della fiera mi sono sentito tutto ‘sto benedetto 13, e quello che posso dire è che, dopotutto, ben venga che questi qua non hanno proprio un cazzo da fare oltre a strimpellare tutto il dì, perchè da tutto ‘sto strimpellamento, oramai sobrissimo e scevro da vizi, è uscito piuttosto incredibilmente un disco che, tranne forse un paio di riempitivi tipo Zeitgeist e Live Forever, si compone di canzoni più che buone, talmente che su Damaged Soul è presente pure un’armonica che manco dà tanto fastidio, il che è tutto dire.

Per farla breve vi consiglio caldamente, anche a causa della calura estiva, di procurarvi 13. Però non pensiate neanche lontanamente di ascoltarlo di giorno: non l’apprezzereste. Meglio di notte, in  compagnia del fido condizionatore, al limite di un ventilatore o se siete proprio sfigatissimi di due finestre aperte per far corrente d’aria, oltre ad un paio di cuffie. Allora sì, e vedrete che ne varrà la pena.

Nunzio Lamonaca – Mi piace che molti abbiano voluto porre l’accento sul ridimensionamento della figura di Ozzy in questo disco, anche se all’inizio non mi pareva. Ma, a quanto sembra, madman o no, il look vampiresco a 60 anni fa patetico un bel po’ e le scelte di marketing in questo caso impongono una certa sobrietà che, in fondo, è la parola che meglio descrive l’intero disco. Tono medio, così medio che pacificare quanti avevano enormi aspettative sul nuovo disco dei Sabbath con quelli che come me non avrebbero neanche voluto ascoltarlo (come, del resto, ho fatto con i Maiden di The Final Frontier) un po’ per disillusione, un po’ perché mancava la motivazione, si è rivelata cosa facilissima, in realtà. E allora, una volta assodato che il disco non è affatto malaccio, via il dente perché di ozzyano c’è ancora qualcosa: il break melodico di End Of The Beginning, ad esempio, qualche riffettino un po’ didascalico, quasi a voler lasciare spazio alla capacità narrativa dell’Osbourne di sempre, voce rapita e timbro che conosciamo. Ma comunque i conti non tornano del tutto. Autocitazioni a parte (Zeitgeist, titolo quanto mai appropriato), è proprio la mancanza di una reale spinta in avanti, di quella grinta che i Sabbath più noti hanno dimostrato di avere anche solo nella formazione con Ozzy, che rende il disco incompiuto, un po’ telefonato. Forse la cosa che più mi manda in bestia, per così dire, è che le trovate compositive per chitarra e batteria (tanto per dire che le lamentele di Bill Ward Ozzy se le attacca benissimo al cazzo) riflettono l’adeguamento a uno standard di cui i Sabbath stessi sono stati maggiori responsabili, e questo per me non può darsi assolutamente. Vorrebbe dire che oggi puoi suonare come a metà degli anni settanta con una patente che, mi spiace per i fan, non si dovrebbe concedere manco ai fondatori di un genere come i Black Sabbath. Tutti a spaccarsi le cervella in due tentando di risalire alla fonte delle influenze dei primi dischi della band e voi mi tornate con un disco di pura sabbathianità? Che senso ha? Mi sarebbe piaciuto vedere i Sabbath vestiti di una classicità che si crea man mano che suoni (quello sì che puoi permettertelo!) ma dopo anni di silenzio, peste e corna, malattie, reality ed Mtv mi aspettavo una cosa un po’ più soddisfacente. Ammesso poi che a quell’età uno non voglia ritirarsi e basta.

Piero Tola – Mi fiondo subito al negozio di dischi vicino casa puntando dritto allo scaffale della lettera B, ed eccolo la’ che mi aspetta. Guardo il prezzo e la sorpresa e’ piacevolissima. L’etichetta sul cellophane dice “Polska Cena”, ovvero “prezzo polacco”. Cosi’ mi precipito alla cassa e con la modica cifra di 40 zloty (circa 10 euro) mi porto a casa 13. Dio benedica la Polonia e il costo della vita in questo paese. Inizialmente, quando sentii le prime voci di una reunion a scopo album, storsi il naso (e non poco) e pensai: “Ok, chi ha il conto in banca a secco stavolta?”. Non Ozzy di sicuro, visto che e’ probabilmente una delle due o tre persone piu’ potenti nel mondo della musica… Poi vennero le varie vicissitudini: Bill Ward rifiuta, viene fuori che il sommo Tony ha il cancro, etc.
Ad ogni modo, tutti questi problemi non hanno impedito la realizzazione di quest’album che, lasciatevelo dire, suona proprio come uno sfogo che attendeva piu’ di 35 anni. Brad Wilk e’ potente e quadrato, e suona proprio come Bill Ward avrebbe suonato su questo disco, se ne avesse avuto voglia (il maligno Ozzy sostiene che Bill non sappia piu’ suonare).
La produzione di Rick Rubin e’ essenziale e i suoni sono forse lievemente piu’ taglienti dei tipici suoni dell’era Ozzy, ma il lavoro svolto dal barbuto produttore e’ eccellente, come al solito. Egli sapeva esattamente di cosa questo 13 avesse bisogno. D’altronde non puoi insegnare ad un vecchio cane ad abbaiare, nevvero? La struttura di End of The Beginning porta con sè alcuni echi del debutto, la struttura ricorda Black Sabbath. Segue il singolo God is dead?, accattivante e oscura, cosi’ come la splendida Loner. Se dovessi trovare un punto debole, non convince molto la pur buona Zeitgeist, che ricorda un po’ Planet Caravan. La seconda parte del disco e’ semplicemente BOMBASTIC, con la bellissima Damaged Soul che spicca su tutte (c’e’ pure l’armonica di The Wizard in sottofondo). Ora capisco perche’ questo disco ha (giustamente) sbancato le classifiche all’indomani della sua uscita, ed e’ confortante vedere che i vari Bieber e compagnia bella si mettono a novanta gradi quando i maestri tornano a farsi sentire. Grazie di cuore Ozzy, Tony e Geezer…

Ciccio Russo – A novembre 2011 l’annuncio di un nuovo disco. Appena due mesi dopo la notizia che un linfoma aveva colpito Tony Iommi. Colui che ha inventato l’heavy metal si dimostra un vero Iron Man: non chiede di bloccare la lavorazione di 13 ma preme per accelerarla. E la fa spostare dagli Usa all’Inghilterra, così da poter alternare le sedute di registrazione a quelle di chemioterapia. E questo ci dà definitivamente la misura di un uomo che ha attraversato quasi mezzo secolo di musica conservando la propria credibilità, sia umana che artistica, intatta come nessun altro. E, soprattutto, questo è l’unico punto di partenza possibile per inquadrare 13. Le ultime notizie ci dicono che le cure hanno funzionato, che sir Tony resterà con noi ancora per un po’. Ma, per quel poco che sappiamo, questo album rischiava di essere letteralmente l’ultima cosa che faceva in vita. Una parola fine a piè pagina di una delle saghe più epiche della storia del rock andava quindi scritta, ed è avvenuto nel miglior modo possibile. Questa, solo questa, la ragione per cui 13 è passato dall’essere un pericoloso azzardo al diventare necessario. Davvero non so come ci si potesse attendere di più. Di certo la radice di ogni eventuale eccesso di aspettative è stata la lunga inattività, che ha infittito l’aura di leggenda fino a renderla nebbia. Chi qualche pelo bianco sulla barba inizia ad averlo ricorderà invece benissimo gli anni con Tony Martin, quando Iommi, allora poco più che quarantenne, era trattato alla stregua di un dinosauro senza più nulla da dire, il nonnetto simpatico che quando parla tutti annuiscono e sorridono, senza mai ascoltarlo davvero. Ora potremmo stare intere giornate a dirci tra noi che Headless Cross era carino e sviscerarne le differenze con The Eternal Idol. Ma sappiamo tutti quanto irrilevanti fossero quei dischi. Sappiamo tutti che l’ultimo sigillo del Sabba rischiava di essere il mediocre Forbidden, dove nel pezzo più memorabile c’era Ice-T che rappava. E invece, salvo il contributo presumibilmente pesante di Rick Rubin (vi rimando a un’interessantissima intervista a Geezer e Ozzy su Spin dove esce fuori che, tra le altre cose, era stato lui a reclutare Brad Wilk), da tre ultrasessantenni arriva questo insperabile atto di autoaffermazione.

Roberto ‘Trainspotting’ Bargone – Lo scenario migliore: 1974. Durante un concerto nel cimitero di Birmingham davanti a centomila persone, tutte drogate, una voragine si apre improvvisamente, inghiottendo i Black Sabbath e buona parte del pubblico. Migliaia di pipistrelli si innalzano dalle viscere della Terra e si avventano sui sopravvissuti, provocando morti violente e spargimenti di sangue vari. La risata di Ozzy risuona dagli abissi, sovrastando le urla di terrore e disperazione della folla; dopodiché, la voragine si richiude per sempre. Il nome dei Black Sabbath viene maledetto da tutte le autorità religiose e messo fuori legge da tutte le autorità civili, e i loro dischi gireranno solo tra gli appartenenti alle sette sataniche, che a quel punto avranno smesso di essere sataniche per dedicarsi esclusivamente al culto dei Black Sabbath, con sacrifici umani e tutto.

Il secondo scenario migliore: i Black Sabbath si sono sciolti nel 1974 e si sono ritirati in un castello infestato dai fantasmi nella brughiera dello Yorkshire, e nessuno ha saputo più niente di loro finché a un certo punto non hanno fatto uscire 13.

Il terzo scenario migliore: questo. Godiamocelo, perché ci è andata davvero di culo.

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