LA MORTE DEI DARKTHRONE


Il problema non è strettamente musicale, ci mancherebbe: The Underground Resistance è forse il miglior disco dei Darkthrone da, boh, comunque parecchio. Il problema è che The Underground Resistance è il fondo della china che i Darkthrone hanno preso a discendere all’inizio degli anni duemila, e che li ha portati a essere qualcosa di assolutamente altro rispetto a prima. E mi ripeto: il problema non è musicale. Il problema è di spirito, di attitudine, di rinnegamento di sé stessi. Leave No Cross Unturned è uno dei pezzi più belli che i Darkthrone abbiano fatto negli ultimi dieci anni, ma è di un bello genuino, elementare, puro; un bello che non ha nulla di concettuale o di simbolico o di eccessivamente speculativo; un bello accademico, filologico, quasi etimologico, nulla a che vedere col bello di Transilvanian Hunger, per il quale bisognerà forse parlare di sublime, o comunque di qualcosa che rappresenta qualcos’altro, che simboleggia qualcos’altro, che parla in molti modi, e non solo con quello che esplicitamente dice. Leave No Cross Unturned non rappresenta un cazzo, ma è probabilmente una delle canzoni più belle uscite nell’ultimo anno, e forse pure l’anno prima, eccetera. Prima ero per strada e ho avuto un’illuminazione. Ho pensato che, tra i musicisti non troppo anziani e che quindi non hanno vissuto interamente gli anni ottanta, i più grandi esperti di heavy metal sono, che io sappia, quattro:  Gerrit Mutz dei Sacred Steel, Oskar Dronjak degli Hammerfall e il tipo dei Dew-Scented che Ciccio intervistò secoli fa sul Metal Shock cartaceo. Sono tre; il quarto è Fenriz. Ora pensate un attimo a che tipo di musica fanno i primi tre: la roba più derivativa che si possa immaginare, veri e propri bignami musicali compressi di vastissime influenze ipertestualizzate. The Underground Resistance è così. Ha talmente tanti riferimenti che non riesco a trovarne nessuno di preciso, e peraltro non mi viene di nominare qualcuno in particolare perché, ad ascoltarlo, più che i grossi nomi mi viene in mente tutta quella pletora di band del sottobosco underground anni ottanta, roba che adesso si trova facilmente ma all’epoca col cazzo. Questa roba qui, e intendo tutto l’ammasso di nomi minori che suonavano heavy metal negli anni ottanta, diciamo il 95% dell’intera scena, puzza di qualcosa che i più giovani non riusciranno a capire. Perché adesso c’è youtube e tu vai, scrivi PICTURE HEAVY METAL EARS FULL ALBUM e te lo senti. All’epoca, mi ripeto, col cazzo. Sta roba non ce l’aveva nessuno, e, se tu per qualche assurdo motivo ne leggevi su qualche fanzine e volevi ascoltarla, dovevi procurarti un contatto e farti dare la cassetta e bla bla bla e magari la cassetta non si sentiva bene o dopo un po’ non si sentiva più oppure il simpatico furetto ti rovesciava la birra sopra, etc. The Underground Resistance puzza della muffa delle custodie delle cassette, di polvere, di umidità, dello scantinato del nonno, della carta scadente delle fanzine. Tutte cose che molti di voi non avranno mai vissuto in prima persona (io stesso le ho vissute appena incidentalmente, non sono così anziano) ma che si percepiscono a pelle durante l’ascolto. Più che di influenze si potrebbe parlare dunque di una specie di rumore di fondo, di riferimenti sparsi e disordinati che si accavallano e si compattano con ostentata strafottenza, tanto da non risparmiare nemmeno sé stessi, come succede proprio in Leave No Cross Unturned che riprende qua e là In The Shadow Of The Horns.

Ma questi non sono i Darkthrone. Non c’entrano nulla coi Darkthrone, non ne sono un’evoluzione né tantomeno qualcosa che si è sviluppato coerentemente da un minimo comune denominatore. Qui non c’è nessun minimo comune denominatore con Panzerfaust. È un altro gruppo, un altro spirito, un’altra attitudine, oltre che un’altra musica. The Underground Resistance sta a A Blaze In The Northern Sky come quest’ultimo stava a Soulside Journey

ho brutte notizie per te, amico

ho brutte notizie per te, amico

Loro del resto l’avevano già fatto una volta, e ora l’hanno rifatto; possiamo dunque parlare di tre ere dei Darkthrone, completamente slegate tra loro: Soulside Journey che fa categoria a sè, poi il periodo black metal, e infine quest’ultimo, che a differenza del precedente non ha avuto una nascita brusca ma graduale, e che potremmo fare iniziare idealmente con Ravishing Grimness anche se è diventato davvero riconoscibile con Hate Them (soprattutto perché di mezzo c’è il magnifico Plaguewielder, uno dei dischi più sottovalutati mai usciti dalla Norvegia, che è una specie di sintesi dei tre periodi, e che soprattutto si prende estremamente sul serio a differenza dei dischi successivi). Arrivati a questo punto del percorso, comunque, di black metal non c’è più nulla e a loro non sembra che interessi molto; penso anche che Fenriz consideri tutto ciò estremamente divertente e spiritoso, ed è bene che capisca il prima possibile che non solo non è divertente e spiritoso, ma anche che non c’è un cazzo da ridere, non quando tu stai usando un nome che in passato ha rappresentato il NERO assoluto, l’ODIO dal profondo, che non ha nessun riferimento quotidiano o immanente ma è solo ODIO puro, tanto idealizzato da essere quasi irreale, il latrato fiero e disperante della cosa che sta lì dentro di noi dai primordi del creato, e dorme, eppure sta sempre lì, e odia tutto, e più di ogni altra cosa odia noi stessi. Con queste premesse mettersi a cazzeggiare con gli urletti in falsetto non mi sembra la cosa più opportuna da fare. Poi magari è solo una paranoia mia che prendo troppo sul serio la cosa, oppure no. Ecco, diciamo di no. Per fare un esempio davvero inopportuno, stronzo e fuori luogo, prendiamo gli Edguy. Gli Edguy hanno avuto una profondissima evoluzione epperò ogni disco è profondamente cazzone e ridanciano e incitante all’alcolismo e agli Interrail promiscui con le spagnole conosciute il giorno prima mentre si vomitavano addosso nel bagno dei maschi. Tobias Sammet, che compone praticamente tutto per gli Edguy, aveva delle velleità operatiche e voleva essere i Savatage; dunque si è inventato gli Avantasia, ci ha messo dentro la sua grandeur e i suoi piccoli problemi di cuore, compone tutto lui pure lì, e tutti felici e contenti.*

Un altro esempio un po’ meno stronzo è quello di Burzum. Burzum dopo quindici anni di carcere esce e, smentendo allegramente tutto quello che aveva giurato e spergiurato, si rimette a fare dischi, perlopiù con le chitarre elettriche! Che lui aveva detto che erano roba da negri, attenzione! Considerando che Burzum è una… cosa ancora più concettuale e attitudinale dei Darkthrone, anzi lo è estremamente, forse più di qualsiasi altra cosa che mi venga in mente, considerando tutto questo, era facilissimo per Vikernes fare una cazzata. Si era proprio messo nelle condizioni ideali per farlo. Ma ai livelli di uno che sta giocando la finale di Champions League, sta sotto di un gol e al novantaquattresimo si ritrova solo in area a porta vuota perché il portiere si è fatto fregare palla sulla trequarti; lui scatta verso la porta e pensa ora faccio come in Holly & Benji, aspetto gli avversari, li scarto tutti e poi segno in rovesciata. Vikernes si era messo in una situazione del genere.  Già il fatto di aver smentito tutto quello che per quindici anni aveva ripetuto sdegnosamente ha dato un bruttissimo colpo alla percezione dell’artista Vikernes, percezione che è assolutamente inscindibile non solo dalla valutazione e dalla percezione della musica ma è assolutamente inscindibile dalla musica stessa, e che ovviamente non ha nulla a che vedere (lo dico per le prefiche lamentose che già alzano il ditino e mi rompono il cazzo su Burzum -e io ve lo ripeto: NON MI DOVETE ROMPERE IL CAZZO SU BURZUM) non ha nulla a che vedere con le coltellate in testa e i busti di Mussolini appesi in salotto ma ha molto a che vedere con la coerenza personale e con la consecutio immediata tra ciò che uno dice e ciò che uno fa. Insomma Vikernes aveva un solo modo per uscirne fuori, uno su centomila: dimostrare di avere ancora qualcosa da dire, di avere ancora qualcosa dentro di sé che scalpitava per uscire e che meritava di essere ascoltata, dimostrare che il suo spirito non aveva smesso di tendere all’infinito. Lo ha fatto: potete berciare e piagnucolare quanto volete, ma lo ha fatto. L’ha confermato anche Michele Romani, che è la Corte di Cassazione del black metal. Belus, Fallen e Umskiptar sono tre album incidentalmente bellissimi ma che soprattutto restituiscono intatto lo spirito del Conte. Quei tre dischi sono dischi di Burzum esattamente come lo è Det Som Engang Var: niente di più, niente di meno. Invece The Underground Resistance non è un disco accostabile a Panzerfaust da nessun punto di vista: non ha gli stessi scopi, non usa gli stessi strumenti, non ha le stesse premesse.

The Underground Resistance è un disco bellissimo, ma il fatto che esca con il logo dei Darkthrone stampato in copertina è un grosso handicap. E intendiamoci: se prendiamo tutti gli scenari possibili, questo è il migliore dopo quello in cui si sono sciolti dopo Total Death o quell’altro in cui sono morti congelati dentro a un iceberg insieme a un branco di lupi; perché la cosa peggiore sarebbe stata riascoltare Fenriz e Nocturno Culto quarantenni a fare dischi in serie sullo stile di Transilvanian Hunger per Nuclear Blast facendo le facce crudeli nelle photosession. La fine dei Gorgoroth, tipo. Ad ogni modo,  la recensione di Stefano Greco spiega in maniera commovente tutti i motivi per cui The Underground Resistance entrerà molto probabilmente nella playlist di fine anno, e voglio concludere come ha fatto lui: quando non mi piacerà più questa roba, sarà davvero finita. (barg)

*  perdonatemi se ho messo Edguy e Darkthrone nello stesso contesto, ma non avrei mai sognato di farlo con quei Darkthrone.

22 commenti

Lascia un commento