Musica di un certo livello #8: WINTERFYLLETH, VALFREYA, AQUILUS, DALRIADA

Una tipica riunione di redazione

Sono sicuro che voi, lettori del blog, siate tutti delle personcine a modino e che nessuno di voi sia a conoscenza di quei siti che permettono di scaricare allegramente dischi di qualsiasi genere, razza, colore, etnia ed orientamento sessuale. Noi siamo, ovviamente, contrari alla pirateria (come del resto alla droga, ndbarg), ma ciò non ci impedisce di reperire idee e fugaci ascolti proprio dai suddetti siti. Durante una delle innumerevoli riunioni di redazione – che in realtà non sono altro che dei fittissimi scambi di deliranti messaggi nel gruppo su facebook, roba che neanche il cut-up di Burroughs – è emerso come sia umanamente impossibile stare dietro alla produzione folk & derivati. Davvero, provateci voi, date un’occhiata in giro e vi accorgerete che la media di uscite settimanali (non mensili o annuali) è diventata assolutamente ingestibile, soprattutto perché, a differenza di qualche anno fa, la qualità si è alzata parecchio. Mentre prima era possibile andare sul sicuro con alcuni gruppi di comprovata affidabilità e qualche scena locale più o meno consolidata, con i suoi pregi ed i suoi difetti, adesso ci troviamo a fare i conti con uscite interessanti da paesi che, fino a poco fa, non avremmo preso in considerazione neanche per errore. Personalmente utilizzo un sistema di distinzione e valutazione dei gruppi folk basato su due livelli: la prima linea di demarcazione è quella tra i gruppi che prendono il genere seriamente (a volte fin troppo) e quelli dall’attitudine cazzeggiante. Sui primi c’è poco da dire, per quanto riguarda i secondi, il mio ulteriore sistema di giudizio tende a suddividerli in buffoni consapevoli e grotteschi casi umani. Per questi ultimi non esiste possibilità di salvezza, sono l’equivalente musicale della “vecchia signora goffamente imbelletata” di Pirandello, i compagni di classe scemi e inopportuni, gente da emarginare senza appello.
Alla luce di questa premessa metodologica, possiamo inserire nel primo gruppo gli inglesi WINTERFYLLETH ed il loro black dalle sottili venature viking. The Trenody of Triumph è il terzo lavoro del quartetto di Manchester, abile a battere le strade dei Bathory che furono e, soprattutto, dei connazionali Forefather. Siamo su composizioni mediamente lunghe (quasi tutte tra i sei e gli otto minuti) e, fondamentalmente, strutturate tutte alla stessa maniera, con un incipit tiratissimo, una parte centrale che lascia più spazio agli spunti melodici per poi tornare sui ritmi iniziali ma in linea di massima direi che il gioco funziona alla grande. Fossi in loro farei un lavoro di selezione più accurato, per evitare di tirare in bocca all’ascoltatore una mattonata da sessantatre minuti (tagliare un paio di pezzi pressoché inutili non avrebbe fatto male a nessuno), comunque un’uscita che merita la nostra attenzione.
Diametralmente opposto il giudizio per quanto riguarda i VALFREYA, sul cui moniker ci si può sbizzarrire in tutti i modi possibili senza mai rischiare di scadere nel trash, non più di quanto già facciano loro da soli. Si sa che, tranne sporadiche e casuali eccezioni, il Canada è un paese del terzo mondo in ambito metal. È altrettanto risaputo che, con eccezioni ancora minori  rispetto al caso precedente, scegliere una donna come frontman per un gruppo che abbia in qualche misura a che fare con black, death e via discorrendo rappresenta la forma più semplice di pubblicità e, al tempo stesso, di suicidio artistico. Ne consegue che un gruppo folk black canadese fondato e capitanato da una donna sia una di quelle cose da tunnel degli orrori già solo a livello concettuale. Sul piano pratico la situazione peggiora ulteriormente. I Valfreya suscitano quel misto di tenerezza e pietà che solo chi produce con estrema convinzione dischi così anacronistici e sconclusionati può fare. Path to Eternity è uno sgangherato miscuglio di cose gettate a casaccio, tastierine e urla sguaiate. C’è di tutto, dai peggiori Cradle of Filth a pezzi birraioli alla Korpiklaani inseriti in maniera assolutamente irrazionale in mezzo a brani che, si suppone, dovrebbero strizzare l’occhio più al black sinfonico che al folk. Alcuni recensori che ne sanno un casino [cit] ne hanno perfino parlato bene. Dio abbia pietà di loro perchè non sanno quello che fanno.

Dall’altro lato del mondo, per l’esattezza dall’assolata Melbourne arriva l’indecifrabile Waldorf, aka AQUILUS, che ha perfino avuto l’onore di essere stato scelto per la colonna sonora del film austriaco Der Lauscher an der Wand, mica Manuale d’amore. Griseus è il primo lavoro sulla lunga distanza ed è uscito già da qualche mese ma, visto che è passato sottotraccia, possiamo parlarne con colossale ritardo senza per questo sentirci in colpa. Introdotto da un artwork di rara bellezza – un accenno di scena lesbo ai tempi del medioevo, inserita in un contesto romantico e bucolico – il disco punta tutto sui suggestivi intermezzi neofolk sui quali il prode Waldorf intesse trame black metal. Senza scomodare paragoni con Opeth, Agalloch e via discorrendo, Griseus è semplicemente un disco ambivalente, fatto di contrasti tra mondi musicali distantissimi, un’opera barocca (è ora che il termine “barocco” rispunti di nuovo in una recensione su tre) che richiede diversi ascolti prima di essere assimilata ma che, certamente, non lascia indifferenti. Sul web trovate più o meno tutto, trattandosi di un giovane australiano dalle nordiche fattezze, tecnologicamente preparato, il ragazzo ha le sue varie paginette ufficiali su facebook, myspace, bandcamp, vende il suo merchandising online, le copie digitali dei suoi dischi e chi più ne ha più ne metta. Siccome, però, vedere video su youtube non costituisce reato, noi tagliamo la testa al toro così.

Anni fa arrivai in Ungheria dopo un apocalittico viaggio in treno da Roma a Budapest e dopo aver attraversato le brumose campagne magiare. Se Pupi Avati fosse nato lì avrebbe di sicuro sfornato due horror gotici al mese ma ho seri dubbi che “A nevető ablakos ház” suoni altrettanto bene quanto “La casa dalle finestre che ridono”. Fatto sta che, a Budapest, trovai un reparto metal seppellito nello scantinato di un negozio di musica più grande. Dalle scalette del retrobottega di quello che poteva essere un normalissimo Feltrinelli, si scendeva in questo inferno buio, freddo e umido, dalle pareti spoglie e con i dischi e le magliette accatastate un po’alla rinfusa. Uno di quei posti in cui temi di perdere i sensi e risvegliarti legato ad una sedia, in Slovacchia, con una pallina rossa in bocca ed il rumore di una motosega in lontananza. La particolarità risiedeva nel fatto che, proprio in quei giorni, usciva uno dei sessantacinque album che compongono la discografia degli Ektomorf e quello che era, probabilmente, l’unico negozio metal di tutta Budapest, non solo non ce l’aveva, ma non aveva neanche una t-shirt di quella che era la sola band capace di uscire dai confini ungheresi dai tempi dei Tormentor. Tutto ciò serviva esclusivamente a testimoniare la pochezza degli Ektomorf, lungi da me discutere i gusti musicali di un popolo che fa entrare costantemente nella propria top ten nazionale i dischi dei DALRIADA. A differenza delle brutte copie dei Soulfly (ovvero il brutto al quadrato) il sestetto di Sopron merita magliette e dischi in vetrina in ogni negozio dell’impero austro-ungarico. Nati come Echo of Dalriada, monicker accorciato sei anni fa, straordinariamente prolifici dall’alto dei loro sette dischi in otto anni, questi allegri giovanotti possiedono tutte le caratteristiche estetiche dei buffoni consapevoli di cui sopra ma riescono lo stesso a non farci imbarazzare di ascoltarli. Napisten Hava esce ad un anno di distanza da quel discone della madonna che era Ígéret e conferma tutto quanto di buono si possa dire su di loro. I toni sono leggermente più cupi, gli sconfinamenti power metal meno palesi e già solo la title track, un concentrato di folklore, ritmi gitani e schiaffoni a due mani, vale una chance per il disco. Altrimenti potete sempre vedere il video del nuovo singolo, una specie di pubblicità dell’ente di promozione turistica del Trentino girata da Marcus Nispel, per quello che è il pezzo più caciarone del lotto. (Matteo Ferri)

3 commenti

  • Mi è bastato sentire i primi 30 secondi del brano del Valfregna e il riff molto “midi” oriented per esclmare senza mezzi termini: BEDDA GGAGGADDA!
    Per fortuna esistono gruppi del genere…almeno ti tirano su la giornata con una risata…amara.

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  • mamma mia i wafregna (cos’è, patata al cioccolato loaker?) fanno davvero schifo. il disco di Aquilus in teoria dovrebbe piacermi ma non riesce a prendermi…

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