La mensa di Odino #9

un tipico scenario estivo

È estate, e tradizionalmente si mangia di meno. Il caldo della madonna e il male al pancino causato dagli stravizi ci spingono a pasteggiare con alimenti falsi e nemici del vero metal, tipo frutta, insalata di riso e pasta alla crudaiola. Un atteggiamento deprecabile che i GRAVE DIGGER sono pronti a raddrizzare ritornando in pista con l’ep Home At Last, già annunciato ai tempi del bagnoschiuma messo in vendita sul loro sito. Il disco è composto da tre pezzi: la titletrack, decente pezzo epico che si apre col riff di Heavy Metal Breakdown e ha una buona apertura melodica nel ritornello; Rage Of The Savage Beast, midtempo tetesco standard; e Metal Will Never Die, che nella strofa in metal we live / in metal we die celebra la stretta connessione tra le vendite dei dischi dei Grave Digger e il pagamento delle bollette dei membri della band. Chiudono tre pezzi live già editi nel live The Clans Are Still Marching. Niente di eclatante, ma questo ep è comunque un monito per chi ora mangia le insalatine e il meloncino con le infradito brasiliane ai piedi, come a dire figli di puttana, il metallo tetesco è con voi per dieci mesi l’anno, fate poco gli splendidi e non fingete di scordarvi di noi perché manca solo un mese al momento in cui tornerete a mangiare brodo di carne. Se il concetto non fosse abbastanza chiaro, il 27 agosto uscirà il disco intero.

Praticate attività fisica? Fate jogging, palestra, piscina, o qualche altro sport solitario che necessita di uno scatto d’orgoglio che deve venire da voi stessi e non dal vostro personal trainer? Niente paura se c’è il metallo: vi basterà spararvi Stargazer dei BLACK MAJESTY in cuffia e spaccherete il culo anche a Usain Bolt. Ed è metallo pesante come Cristo comanda, signore e signori, con una combinazione di potenza e melodia che ricorda i Rage di Black In Mind, pur se i riferimenti sono power metal tout court: vecchi Nocturnal Rites e primi Edguy, soprattutto.

Ma i Black Majesty sono australiani, e rispettano due precisi stereotipi: 1-come tutti i gruppi anglofoni, sono mediamente più rocciosi rispetto ai gruppi dell’Europa continentale e 2-come tutti i gruppi australiani, hanno inevitabilmente qualcosa di sbagliato. Nella fattispecie, un cantante sfiatatissimo che però ce la mette tutta per avvicinarsi il più possibile alle note da prendere; questo particolare potrà comunque essere d’aiuto durante le vostre solitarie sedute d’allenamento, perché vi sarà di conforto che tale John Cavaliere sia arrivato a cantare in un disco bello come Stargazer nonostante la natura non sia stata proprio generosissima con le sue doti vocali. D’ora in poi non avete più scusanti se vi lamentate dei vostri chili di troppo. Possibile sorpresa nella top ten di fine anno.

Nancy è una città francese situata in una regione, la Lorena, che in passato è stata spesso al centro di sanguinose lotte territoriali con la Germania. Da qui vengono i FENRIR, al loro debutto con un folk metal che deve tantissimo ai miti germanici e celtici pur mantenendo la propria francesità, diciamo. Echoes Of The Wolf è strutturato sulle due donne in formazione: Sophie, la soprano, ed Elsa, la violinista;gira tutto intorno a loro, e sono proprio loro a dare ai Fenrir un’identità ben riconoscibile. Non che Echoes Of The Wolf sarebbe un brutto disco altrimenti: le melodie sono sufficientemente evocative, e le canzoni avrebbero funzionato, forse, anche con un diverso arrangiamento. Ma è il ruolo centrale dato al violino e all’incerto cinguettìo di Sophie a farne un disco decisamente godibile. Il fascino della cosa è dato anche dall’ingenuità tipica dei debuttanti, a partire dalla produzione un po’ così fino al fortissimo accento francese della cantante. Le liriche coprono quasi interamente la varietà di temi trattati di solito dai gruppi folk metal: dai miti nordici (Rainbow Bridge, Fenrir) a quelli arturiani (Morrigane’s Fury, Tristan and Iseult), da Tolkien (Prancing Poney) a Shakespeare (Macbeth) fino alla battaglia di indipendenza scozzese e così via. I Fenrir si pongono esattamente a metà tra quei gruppi folk iperprodotti da festival (stile Eluveitie) e quelli che mantengono forte l’identità black metal con un suono ruvido e delle velleità bucoliche. In medio stat virtus, dicevano i giapponesi, anche se per gruppi come i Fenrir c’è sempre il rischio che si prenda una china strana iniziando a imitare gli Epica o che so io. Per ora Echoes Of The Wolf è un buon sottofondo da canticchiare.

E ci sono anche i FIREWIND con noi: la creatura di Gus G con Few Against Many è ormai arrivata al settimo disco, con una risonanza enorme rispetto agli esordi dovuta all’ingresso del chitarrista greco nella band di Ozzy in sostituzione di Zakk Wylde. Ricordo che recensii il debutto, Between Heaven And Hell, nel lontano 2002, ma era praticamente un’altra band. Non ho apprezzato moltissimo il cambiamento di rotta di Allegiance (nonostante abbia anche portato buoni frutti), che ha influenzato tutta la discografia successiva a causa della scelta del nuovo cantante Apollo Papathanasio (ora anche negli Spiritual Beggars), che li ha di fatto limitati. L’ultimo disco è comme ci comme ça, ha canzoni carine (Destiny, Wall Of Sound, Another Dimension) e forse nessun momento davvero brutto (a parte un ballatone con gli onnipresenti Apocalyptica), ma in generale scorre via come acqua fresca. La canzone riuscita meglio è probabilmente Losing My Mind, un po’ Alice in Chains un po’ Anthrax, posta a metà del disco, l’unica ad avere pochissima affinità col power metal di scuola svedese a cui Gus G si è sempre ispirato. Massimo rispetto per il chitarrista greco, per la sua passione e il suo antidivismo, però ogni tanto potrebbe anche prendersela comoda.

sembra delicata, ma strilla parecchio

Parliamo del live album degli ELUVEITIE? Dai.  A loro sono legato perché su questo stesso blog ho recensito l’ultimo e il penultimo, e in quelle recensioni ho detto più o meno tutto quello che avevo da dire su di loro. Da Live On Tour mi sarei aspettato il classico live album leccatissimo e patinato, e invece sembra un bootleg registrato male. Davvero bizzarro, conoscendo i tipi. Comunque, anche senza il loro caratteristico suono plasticoso, gli Eluveitie non fanno una brutta figura in Live On Tour; segno che gli svizzeri sanno suonare e dare impatto anche senza i tipici escamotage da studio. Questo non salva il live album in esame dalle comprensibili critiche sulla produzione, ma fa ricredere chi, come me, non avendo mai visto la band in concerto nutriva dubbi sulla loro effettiva resa dal vivo. Menzione a parte per la prestazione di Anna Murphy in A Rose For Epona, l’ammiccante singolo di Helvetios: come già detto la canzone -pur essendo una ruffianata pazzesca- è maledettamente orecchiabile, e qui la canta ancora meglio che su disco. E i passaggi più complicati lei li prende di petto e li strilla con una foga impressionante. Se non è frutto di ritocchini ex post, mi sento obbligato a farle i complimenti. Ora ci salutiamo, ma voi non dimenticatevi del metallo. (barg)

 

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