FEAR FACTORY – The Industrialist (AFM Records)

Arrivare per primi a certe rece, lo so, è un obbligo per chi non pretende altro da una fanza/blog/rivista che essere informato in quanto lettore il quale, a sua volta, sant’Iddio, uno spera pure che abbia un rapporto con lo scribacchino di turno non dico amichevole ma quasi.

Non so se voi vi comportiate così con noi (con alcuni di noi, ovvio, non è che potete averci tutti sulle scatole) ma immagino che il rapporto giorno dopo giorno possa deteriorarsi se certe aspettative non vengono mantenute sulla lunga distanza. Che è una materia nella quale francamente nessuno riesce del tutto, date certe priorità nella vita di ognuno di noi. Che è qualcosa che nessuno di voi potrebbe fare con perfetta continuità perché siete esattamente con noi, non so se mi spiego.

E che, a ben vedere, riesce male persino ai Fear Factory che sono in questo momento un po’ il perno di tutta la discussione sulla continuità delle uscite mista alla bontà delle stesse. Tutto questo (detto senza polemica) per dire che il nuovo della band più macchinosa di sempre fa abbastanza pietà. Io non ho adorato i vecchi dischi della band successivi allo split con Cazares e non ho neanche apprezzato tantissimo l’ultimo vero lavoro degno di nota della band, quel Digimortal che giustamente/ingiustamente moriva sotto i colpi del truzzame nu metal di dieci anni fa. E lasciamo pure perdere gli album realizzati ora senza Dino, ora senza chissà chi altro.

Il disco già ad un primo ascolto sembra ripercorrere il mix e la scaletta di quei capitoletti della saga antiumana più naive di sempre (dopo Dimension Hatross dei Voivod!) che fu Demanufacture. E quindi un intro tra lo sferragliamento industriale e un’ambientazione dickiana di terza mano, un’opener che inizia a martellare con la sola doppia cassa, riff stoppatissimi come da tradizione e così via. Una traccia con voce pulita finalmente, una sferzata battente e martellante come New Messiah che non può che rimandare a questa o quasi.

Dopodiché è tutto un continuo ricicciare la formula innovativa (ma innovativa vent’anni fa) di Demanufacture. Non mancano interessanti momenti di vertiginoso spaesamento tra lo stupito e lo stupefatto, tra l’arricciata di naso e lo stringersi nelle spalle, come in God Eater, spiazzante misto di pesce in umori thrash-industriali danzerecci su base –boh- dubstep o quasi. Per il resto rimaniamo veramente sempre sulle stesse assurde coordinate musicali che la band ha saputo, e ora supponiamo anche voluto, ostinatamente autoimporsi. Perché se in tanti anni la chitarra non cambia stile, la voce se possibile peggiora e la batteria suona sempre uguale non importa chi sieda dietro le pelli, qualche calcolo bisogna farselo. Per ora lo stile drin-drin-tapa-tapa di Gene Hoglan si sente (anche se ci suona tutt’altro batterista) ma la differenza non la puoi fare se speri di dover per forza restituire ai fan sempre la stessa marcetta alla Herrera. E qui viene il bello: la batteria non c’è, è programmata. Cercate notizie da soli. L’ultimo pezzo è una sorpresina, capirai.

Potrebbe essere un lavoro un po’ di riscatto, a ben vedere. Ma potrebbe, al contrario, figurarsi come una boiata immane fatta in fretta e in balia dei deliri egoistici della coppia Bell-Cazares, responsabile assoluta di questa massima sintesi del sound.

Ora però vi dico come la penso io veramente. Non sono contrario all’uso di macchinari nella musica, affatto, e tanto meno se questi vengono impiegati nel metal di un certo peso ‘fisico’ e umano. Inoltrare pesanti infiltrazioni di elettronica nel sound di una band che ha di suo un particolare ed intimo concept futurista mi va bene, anzi benissimo. Se penso al desiderio di sradicamento della cifra umana da un concept noise/hardcore archetipico come nei Godflesh, mi va benissimo, a patto però che tale funzione sia efficace ed eloquente. Posso starci anche se una band un po’ figlioccia dei Godlflesh come i Fear Factory tenta esperimenti di questo tipo, ma deve assicurarmi che tali lavori siano produttivi, sennò è solo fretta e fighettismo fuori moda. Come mi spiegate altrimenti che la band in questione all’inizio era praticamente un gruppo tutto sommato death metal passato ad un thrash secco secco e macchinoso ed ora suona ancora come fossimo ancora a vent’anni fa? Come mi spiegate che potrei ascoltare un disco del genere senza neanche rendermi conto che un batterista vero non c’è? Quanta presunzione bisogna avere per non accorgersi (da membro del duo) che i suoni sono di un demodé spaventoso (e guardate che noi ascoltiamo i Blue Cheer ogni giorno) uniti pure all’idea di romperci ancora le scatole con queste menate fantascientifiche?

Boh. Messa in questi termini il disco è il male assoluto ma, visto che siamo tutto sommato degli estimatori del gruppo, io fossi in voi un ascolto lo darei. Poi però riprenderei Demanufacture, soffierei via la polvere dalla confezione e lo infilerei nel lettore.

Ciao.

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