ANAL CUNT – The Old Testament (Relapse)

e non voglio dire “tanti anni fa”; ma tanti anni fa
(Giovanni Trapattoni)

Ricordo con precisione l’istante, il primo contatto: una recensione di Top 40 Hits dove gliene dicevano di ogni. E per il successivo 40 More Reasons To Hate Us peggio ancora: voto “zero spaccato” (così, scritto in lettere) e recensore preso male proprio a livello personale, come se questi avessero fatto uno sgarbo a un suo parente. Poi nel 1997, attirato dalla locandina formato francobollo sul catalogo della Morbid Records, ho comprato la ristampa di 88 Song EP. Era l’idea di così tante canzoni (mai nella vita mi era capitato di ascoltare un disco con ottantotto pezzi) racchiuse in così poco tempo ad aver fatto breccia nella mia impressionabile mente di regazzino arcòrr. Ma nemmeno l’immaginazione più allenata avrebbe potuto prepararmi allo spettacolo; non solo era roba al cui confronto chiunque avesse la pretesa di suonare veloce e rumoroso poteva soltanto correre a casa piangendo e tentare al più presto di porre fine alla sua patetica esistenza, c’era di più: era roba sgradevole. Non certo per i testi, che sarebbero arrivati diversi anni più tardi (e comunque non si sarebbe capito un cazzo in ogni caso), né per la musica (che in effetti era quasi assente), quanto per la negazione assoluta di entrambi i concetti: niente titoli, nulla che fosse anche solo lontanamente avvicinabile alla nozione di melodia, piuttosto un’indigeribile, insondabile melma di urla + rumore scaturita e motivata da un’attitudine irraccontabile, mai altrettanto molesta altrove, che colpiva ben oltre la soglia del fastidio fisico. Non avevo mai ascoltato roba del genere, e non ne avrei ascoltata in seguito. Gli Anal Cunt hanno sempre fatto razza a parte: non sono stati la prima band noisecore (per risolvere il quesito vi invito a visitare il sito di Guru, il massimo esperto italiano in materia), né la più veloce (in questo il lato B di Disgrace To The Corpse Of Sid dei Sorethroat per quel che mi riguarda rimane il limite irraggiungibile), ma sicuramente la più radicale, oltre che – letteralmente – uno dei gruppi più importanti dell’intera storia del rock. Senza scherzi: riuscendo a farsi odiare praticamente da chiunque, hanno saputo parlare a tutti.

Seth Putnam al lavoro


M’ha preso a calci, lo stronzo…
(mr. Pink, Le Iene)

Il motore degli Anal Cunt è sempre stato Seth Putnam, ebreo di Boston, tossicomane, alcoolizzato, vizioso. Uno di quelli che in giro non ne trovi, un’intelligenza nervosa e iperattiva sempre tesa a investigare il lato molesto delle cose. Qualcosa come la reincarnazione di GG Allin e Bill Hicks, solo infinitamente più acuto e oltraggioso del primo e decisamente più sgradevole e distruttivo del secondo; una bomba a orologeria scagliata contro qualsiasi certezza precostituita, contro ogni perbenismo e ogni convenzione sociale di sorta. Un Einstein borderline della provocazione e dell’insulto ragionato, che nel 1991 quando la moda dell’unplugged via MTV dilaga ovunque incide un sette pollici di noise acustico (…) e lo dedica “a tutte le fottute trendy bands che pensano che sia fico suonare acustico oggi”. Che sovraincide 5.643 canzoni una sull’altra (…) creando di fatto il disco più inascoltabile mai registrato. Che da quando decide di introdurre titoli e testi nei pezzi se la prende con persone di qualsiasi sesso, razza e religione per il puro gusto di rompere i coglioni alle anime belle (che puntualmente abboccano indignandosi come anime belle), non risparmiando nessuno, sé stesso in primis (del resto stiamo parlando di uno che, uscito per miracolo dal coma, torna subito in tour semi-immobilizzato e costretto in carrozzella e naturalmente continua a eseguire regolarmente pezzi tipo You’re in a coma o Jack Kevorkian is cool). Che nei live ha saputo elevare il concetto di “confrontazionale” a livelli da far sembrare i Suicide degli esordi ingessati accademici: niente palco e raptus di violenza improvvisi e inaspettati, di solito spaccava nasi o menava a sangue gente a caso, brutalizzando un povero stronzo random con accanimento bestiale e senza alcuna ragione, il fatto strano è che in tutta la vita non abbia collezionato più di un paio di denunce.
Come si diceva, il bello degli Anal Cunt è che facevano schifo a tutti, e intendo veramente TUTTI. I fan della prima ora presero malissimo il passaggio su Earache, sostenendo che si fossero ‘venduti’ al ‘nemico’; gli altri si scandalizzavano per i rimandi nazi e i titoli dei pezzi e disco dopo disco continuavano a reagire come critici blasonati di fronte all’opera omnia di Ed Wood, Putnam comunque un generatore di malessere e fastidio irreplicabile e inimitato. Alla fine forse l’unico disco davvero brutto degli Anal Cunt è il fiacco Fuckin’ A del 2010: stanco, inutilmente rockettaro, bolso e drammaticamente privo di verve. In compenso tutto quello che viene prima andrebbe ascoltato almeno una volta nella vita, i demo e i primi sette pollici autoprodotti (tutti raccolti in The Old Testament) che hanno reso la creatura di Putnam tra le più estreme e innovative di sempre a prescindere da generi, stili e classificazioni di sorta, certo anche gli album su Earache, il casinaro Everyone Should Be Killed, l’eclettico Top 40 Hits, il mega-metal 40 More Reasons To Hate Us (col futuro Agoraphobic Nosebleed Scott Hull alla chitarra e Phil Anselmo alla seconda voce in diciassette pezzi, di tutti probabilmente il disco più ‘ascoltabile’) e gli speculari I Like It When You Die e It Just Get Worse, oltre ovviamente a quel micidiale mindfuck che è Picnic Of Love e per tacere dei numerosi side-project di cui Impaled Northern Moonforest è soltanto la punta dell’iceberg. Seth Putnam è nato il 15 di maggio e in un mondo giusto Natale si celebrerebbe allora; è morto l’11 giugno scorso e mi piace credere che ora stia discutendo di massimi sistemi con Peter Steele. (Matteo Cortesi)

10 commenti

Lascia un commento