La mensa di Odino #7

ehi mister gilet di pelle

Unbreakable non è solo il disco che ti saresti aspettato dai PRIMAL FEAR; Unbreakable è il disco che avresti voluto, dai Primal Fear. Pur seguendo la band di Matt Sinner dagli esordi, non ricordo un loro album che mi abbia preso così tanto sin da subito come ha fatto questo. Parlo di disco nel suo complesso, non di singoli pezzi (per quello vincono ancora cose leggendarie tipo Iron Fist In A Velvet Glove, Silver & Gold Angel In Black, senza voler necessariamente citare quella Chainbreaker responsabile di innumerevoli pogate contro il muro e scoppi di odio cieco verso chiunque non abbia neanche un disco dei Judas Priest in casa). Ma, calcolando che siamo ormai alla nona prova in studio, c’è solo da rimanere stupiti. Oddio, in realtà non più di tanto, se si considera che alla fine questi fanno lo stesso disco dal 1998 e già allora non avevano inventato nulla di nuovo, essendo più che altro una riedizione priestiana del metallo tetesco; o alternativamente una versione tetesca dei Judas Priest.

Però ora basta pippe mentali: qua dentro c’è roba clamorosa come And There Was Silence, la migliore del disco, che ti fa tornare ai tempi dei primissimi Gamma Ray; o anthem da pugno alzato e stadio in visibilio come Metal Nation e il singolo Bad Guys Wear Black (col testo da cantare tutti in coro mentre si viaggia verso un festival estivo: bang your head until you reach the end / bang your head and don’t look back – il video lo trovate qui sotto) o ancora la powerballad Where Angels Die; e ovunque la solita selva di riff taglienti come scimitarre stridule che fischiano con una frequenza che neanche l’arbitro Tagliavento (la cui signora, recitava un coro dei tifosi della Roma, ne pija cento) sorrette da una batteria che cerca in ogni modo di farti esplodere le casse; e soprattutto la voce del muscolosissimo Ralf Scheepers, che dà sempre l’impressione di dover uscire da un momento all’altro dagli amplificatori con il suo gilet di pelle per prenderti a pugni in faccia finché non muori. Inutile ovviamente soffermarsi sui testi, che come è giusto che sia parlano solo di gente che si picchia, esplosioni nucleari ed heavy metal. Insomma nel 2012 i Primal Fear sono uno dei gruppi che maggiormente rappresenta IL METALLO nella sua essenza più pura: e Unbreakable ce li ripresenta in una forma smagliante, mentre macinano riff su riff con una freschezza compositiva che non avevano più da anni. Certo poi ci sarà il solito tizio coi capelli bene in ordine che dirà mah…….sepmre la stessa roba trita e ritrita……contenti voi XD ihihih. VAFFANCULO.

Due parole anche per Helvítismyrkr degli ARCKANUM, uscito a settembre e quindi, suppongo, già abbondantemente ascoltato da chi segue la scena. Dubito di poter dire qualcosa di particolarmente interessante a riguardo: il progetto di Shamaatae, scioltosi nel 1998 e riformatosi nel 2006, è a furor di popolo considerato una delle più belle realtà black metal dell’ultimo periodo, e questo specialmente per il capolavoro di tre anni fa dall’impronunciabile titolo ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ; dopo il quale hanno continuato a sfornare dischi pregevoli ma mai più a quel livello: Sviga Lae del 2010 e appunto questo Helvítismyrkr. A dispetto della provenienza svedese lo stile è sempre nettamente norvegese; non c’è nessuna delle caratteristiche del BM di scuola svedese, al contrario su Helvítismyrkrsi riprendono anche le ultime fisime di quello norvegese, comprese le derive black’n’roll stile Taake (Or Djupum) e una certa corposità del suono e dei riff che in qualche frangente sembra sfiorare lo sludge. L’eventuale e ipotetico appassionato di BM che per qualche surreale ragione non li abbia mai sentiti farebbe bene a ripescarli, quantomeno ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ (en passant non credo che la lotta alla pirateria si possa combattere facendo uscire dischi che poi a cercare di spiegare al negoziante come si chiamano fai la figura del coglione; ma suppongo che anche questo voglia dire vivere hardcore radikult). 

Heathen Warrior degli STORMWARRIOR è uscito già da qualche mese, ma dato che i loro dischi sono tutti uguali non penso cambi molto se ne parliamo adesso. Metallo tetesco alla vecchia con un tiro micidiale che fila via come un treno, tra Running Wild, Helloween di Walls of Jericho e qualcos’altro con la doppia cassa a manetta. Gli Stormwarrior hanno, hanno sempre avuto, una capacità di farti ribollire il sangue nelle vene che ha pochi pari al giorno d’oggi; ed è commovente la loro totale aderenza ai dogmi dell’heavy metal di fine anni ottanta. Il cantante, Lars Ramcke, ha una voce di un gatto squartato e dà pienamente l’impressione di impegnarsi il più possibile affinché gli venga fuori esattamente così: tipo i Sacred Steel, che però hanno muse ispiratrici diverse e una rigidità filologica più accentuata. E gli Stormwarrior sembrano divertirsi davvero tanto, a fare canzoni tutte stilisticamente uguali, con i riff in palm muting e le aperture melodiche maideniane a 45 giri, coi testi che parlano di vichinghi e barbuti analfabeti che danno fuoco a interi villaggi al solo scopo di glorificare il metallo e arrostire i wurstel. Meraviglioso anche lo scimmiottamento dell’inglese arcaico nei titoli e anche nei testi, con il suffisso -e messo ovunque dopo la consonante finale (roba del tipo withe the mighte of Habrok I’m soaringe highe). Ovviamente ci sarà chi troverà tutto ciò ridicolo, ma io a questo punto mi chiedo che cazzo stiate ancora a leggere le mie recensioni. Kai Hansen, che li scoprì, li produsse e li portò in tour, disse che ‘loro hanno il Fuoco’; da ciò ne consegue che your argument is invalid.

Vecchio di qualche mese anche Communicate The Storms dei CIPHER SYSTEM, dignitoso melodeath dalla Svezia. Per ragioni generazionali io di solito intendo qualcos’altro quando parlo di death melodico, a maggior ragione se svedese. Però la storia pare aver preso un altro corso, e dunque i Cipher System sono considerati tali anche se alla fine si limitano a copiare piuttosto pedissequamente i Soilwork di metà anni duemila. Niente di male in questo (Stabbing The Drama spaccava anche abbastanza), però io continuo a pensare a Massive Killing Capacity, scusate. Ad ogni modo quei dischi dei Soilwork mi sembravano piuttosto asfittici, specie se visti da un punto di vista prospettico; nel senso che non avrei scommesso più di tanto su una futura evoluzione della cosa. Ho avuto insieme torto e ragione, cioè: molti si sono ispirati a quei dischi, è vero, ma è anche vero che non hanno portato poi tanto avanti il discorso. Quindi ci ritroviamo con Communicate The Storms che suona pari pari a quella maniera, e pur essendo un ascolto abbastanza gradevole non riesce a farsi prendere troppo sul serio. Ironicamente l’ultima The Failure Stars è la migliore, ed è anche quella che osa più di tutte, abbozzando una possibile fuga prospettica.

E fanno bingo i NEMESEA, gothic metal cheap and chic dal paese dei Gathering e della white widow. Il precedente In Control era una palla mostruosa, tutto preso dalla voglia di tuffarsi nel calderone indistinto di gruppi dell’Europa centrosettentrionale con le orchestrazioni e le cantanti strillone con le tette al vento. The Quiet Resistance invece è carino. Certo, è vergognosamente truzzo e potrebbe essere capace di farti guardare allo specchio e dire, con la voce rotta dalla disperazione, “Ma che cosa mi è successo?”, mentre senti ancora il sapore delle lacrime che un te stesso più giovane e migliore aveva versato ascoltando Crystal Mountain subito dopo la morte di Chuck Schuldiner. Carino in questo senso, diciamo.

I Nemesea fondamentalmente hanno capito che quella roba che stavano facendo era già molto vergognosa di suo, quindi a sto punto tanto valeva mettersi a fare gli americani. The Quiet Resistance è più influenzato dagli Evanescence, e gli influssi elettronici si sono ingigantiti, diventando a questo punto un marchio di fabbrica su cui faranno bene a puntare ancora di più in futuro. La strillona di turno Manda Ophuis è sempre un filino esagerata nello strillare, però ci si può lavorare, credo. Se fossero più pubblicizzati quest’estate spopolerebbero in tutte le serate rock sulle spiagge a base di sangria, cocomero e diciassettenni  ubriachi che ci provano con la promiscua Consuelo della III B. Mettiamola così: in un mondo perfetto, al posto di Emma Marrone il popolino musicalmente laico ascolterebbe i Nemesea, che in un mondo perfetto rappresenterebbero la musica da disprezzare; in questo mondo imperfetto, rappresentano l’ultimo gradino in basso della musica che valga la pena ascoltare; e questo penso sia il più grande complimento che si meritino. (barg)

PS: ovviamente non potevo esimermi:

16 commenti

Lascia un commento