PEARL JAM – Twenty (Columbia)

bella maglietta.

Parlare dei Pearl Jam in maniera retrospettiva ora, a vent’anni da Ten, è più che altro un lavoro di riemersione del sommerso. Perché, per chi è cresciuto negli anni novanta con una certa formazione musicale, i PJ hanno rappresentato qualcosa di difficilmente esprimibile a parole; ed è curioso che mi trovi a scriverne adesso, a trent’anni ormai compiuti, quando tutto è cambiato eppure rimasto così spaventosamente simile; su un bloc notes, a penna, mentre guardo fuori dal finestrino di un treno regionale un po’ troppo mattiniero e nelle orecchie scorre una versione acustica di Garden registrata nel ’92. Sono passati più di 15 anni da quando mi innamorai di Ten, e tutto ciò che i Pearl Jam sono stati, tutto ciò che quel disco è stato, continua ad essere sempre uguale ma con mille sfumature e significati in più; perché un altro disco così non c’è più stato e probabilmente non ci sarà mai, nonostante abbia influenzato il modo stesso di concepire il rock di un’intera generazione. Ten fu il risultato di quattro musicisti in stato di grazia, 4 anime + 1 che in qualche modo sono riuscite a entrare immediatamente nella Storia del rock ricreando lo spirito dei due decenni passati e sintetizzando gli anni novanta quando questi erano appena cominciati. Forse è per questo che riascoltato oggi appare così fuori dal tempo e insieme così intimamente legato al proprio tempo. Un disco che loro non sono mai riusciti a replicare neanche alla lontana ma che ha gettato le basi per un splendida carriera di future hall of famers del rock americano, decine di milioni di copie vendute e la stessa puzza di localino impregnato di fumo e birra rancida degli inizi, eroi della Mtv generation pur avendo fatto passare un decennio tra il secondo video e il terzo, anni passati sui palchi di tutto il mondo in una coazione a ripetere che li porta a replicare sé stessi e l’intero immaginario cantautorale americano perché questa è l’unica cosa possibile da fare. 
Twenty è la colonna sonora del film celebrativo del ventennale della band diretto da Cameron Crowe. Non ho visto il film, non posso parlarne. Il disco è un doppio cd con versioni live e qualche pezzo dai demo. Si ripercorre l’intera loro storia, compreso l’Mtv Unplugged e i mai troppo elogiati Temple Of The Dog, qui ricordati con Times Of Trouble, Say Hello 2 Heaven e Chris Cornell prima che l’eroina distruggesse la sua voce e il suo essere Chris Cornell. Un’operazione dovuta, celebrativa di un gruppo che trascese il suo tempo e divenne Mito già al debutto e nonostante una carriera antidivistica passata a prostrarsi umilmente di fronte ai propri idoli e cercando quasi consciamente di smantellare l’aura che gli si era già dai primissimi tempi formata attorno. Operazione che non gli riuscirà probabilmente mai, nonostante il presenzialismo autolesionista di Eddie Vedder in qualsiasi collaborazione o progetto gli venga proposto, e nonostante ormai aspettarsi qualcosa dal nuovo disco dei Pearl Jam sia un meccanismo mentale più dovuto che realmente sentito. Per tutti questi e per mille altri motivi, parlare retrospettivamente dei Pearl Jam in poche righe è un’impresa impossibile. Sono stati troppo grandi, sono ancora qualcosa di indefinitamente enorme e per quelli come me hanno rappresentato qualcosa per cui forse le parole non esistono. Ascoltate Twenty e provateci da soli. (barg)

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