LULU

Matteo Cortesi: Esiste e non ci puoi fare un cazzo Lulu, ottantasette minuti di sconvolgente inanità, quattro più uno miliardari annoiati con la villa a Laurel Canyon (o negli Hamptons, o entrambe) e l’angoscia di dimostrare di avere ciononostante qualcosa da dire, l’ansia di non avere un cazzo da dire, ma manco un pensiero piccolo piccolo, sentirsi vivi anche a settant’anni e dopo essere passati attraverso tanta di quell’eroina da sterminare l’intera popolazione del Canada, e tenerci a fartelo sapere. Il dipanarsi inesorabile di una storia di cui non frega un cazzo a nessuno (precedenti illustri: Kiss – Music from “The Elder”; Perigeo Special – Alice; David Bowie – 1.outside), vaniloqui da loft ripieno di gente nata per Creare che una volta in più dimostrano come SoHo sia prima di tutto una condizione della mente, produzione nuova scuola Bob Rock, chitarre crasse e batteria pestona bum cha-cha in pilota automatico spinto, Lars Ulrich come Kenny G per il sassofono e Hetfield molto in sottofondo manco a dirlo in enfatico Hetfield karaoke mentre di rimando parte l’ennesima supercazzola di un vecchio che pensa di essere intelligente. Noia. Una noia devastante, al di fuori di ogni costrutto. È una vertigine Lulu, un Moloch, come guardare dentro uno specchio e trovarsi a dover fare i conti con tutto il tempo sprecato della vita, i colpi a vuoto, l’apatia, voler cercare un senso là dove un senso non c’è, l’abbrutimento servito in confezione extralusso al sangue e foto costosissime di Anton Corbijn, un folle mash-up tra il disco con l’orchestra e St. Anger via le peggio cose di Reed solista, l’apice Frustration che pare Kashmir suonata da un gruppo di barboni ubriachi con Alan Vega al microfono (e che emozione se ci fosse stato davvero Alan Vega al microfono, staremmo a dire di tutta un’altra storia); però la seconda metà di Junior Dad non è male, sembra quasi un pezzo di Eliane Radigue con molte note di troppo, e ritorna prepotentemente lo spettro del minimalismo cialtronesco a più riprese bramato e malamente evocato da Metal Machine Music in poi. Il rispetto manco a dirlo è infinito: dischi come questo sono merce rara, capaci di saper essere merda integralmente e fino in fondo, senza la minima misura o pudore, con un coraggio e uno sguardo e una visione che trovi solo in chi è grande davvero. Ultima perla in ordine di tempo in un 2011 in grande spolvero di dischi assurdi e randomici (Morbid AngelWilliam Shatner), comunque Lulu ha qualcosa in più, sarà per l’azione combinata, il trust di cervelli, non so e non voglio sapere.

Ciccio Russo: Danko Jones dopo averlo ascoltato ha messo all’asta su twitter l’intera discografia dei Metallica. Evidentemente si aspettava qualcosa. Deve essere stato l’unico, Lulu è esattamente come lo immaginavamo: un marasma stantio e insensato, privo di direzione e mortalmente noioso, che riesce a mettere insieme il peggio di musicisti che nel corso della loro carriera sono stati pionieri di nuove frontiere dell’orrore su sette note. Perché questa è gente che riesce ad essere grandiosa e larger than life anche quando fa schifo. Manca però la dimensione di disfatta epica che ancor oggi ci spinge a interrogarci su autentiche Waterloo musicali come St. Anger, così come è del tutto assente quel fattore so bad it’s good che ci fa amare un Illud Divinum Insanus. Lulu è una puttanata annunciata, un progetto nato male e sbagliato nelle fondamenta che tocca le vette di grottesco più elevate proprio nei momenti più metal. I riffacci reiterati fino alla nausea di Mistress Dread e Frustration paiono veramente avanzi delle session di St.Anger, mentre quando i four horsemen restano più sullo sfondo rimane il solipsismo pretenzioso e trombone, in fondo quasi rassicurante, al quale ci ha abituato Lou Reed negli ultimi anni (Iced Honey – forse il pezzo meno abominevole – sembra provenire da un ipotetico remake lobotomizzato di Berlin fatto con gli scarti di The Raven). A tratti si prova anche una sorta di perversa fascinazione ma passa presto la voglia di approfondire e trovare un senso in questo indigeribile pasticcio, dove l’unica logica è quella di un cinismo odioso e scorreggione che lascia disarmati. Appuntamento il 13 novembre da Fabio Fazio. No, sul serio

Nunzio Lamonaca: Facciamo così, track by track.
Brandenburg GateReed canta come un ubriaco potrebbe implorarti di restargli accanto per parlarti del suo devastante divorzio. Hetfield fa i suoi classici gorgheggi alla CinquettiLars pesta come un dannato. Malissimo come sempre. Sempre il solito rullante da vent’anni.
The View: Riffone sabbathiano, voce fuori luogo. Una palla senza fine. Skippo.
Pumping Blood: Intro d’archi. Di nuovo riffoni del cazzo e fill di batteria da due soldi. Lars ha definitivamente dis-imparato a suonare. Il bello arriva con la voce di Reed, sempre la storia dell’ubriaco di prima. Noise a go-go, Lars che rovina sempre di più.
Mistress Dread: Cavalcata veloce dei poveri su un tappeto d’organi. Entra Lou. Skippo, fa troppo schifo.
Iced Honey: Riffone arrembante alla Thin Lizzy. No, non si scrivono canzoni con UN SOLO riff.
Cheat On Me: Undici minuti. 11. UNDICI. U-N-D-I-C-I. Roba soffusa poi è il solito festival della tamarraggine. Madonna che brutta, skippo. 
Frustration: Otto minuti. Riff simil-doom. Skippo, a un certo punto c’è Lars che fa i capricci e -tipo- ripassa un fill di batteria. Orrore puro.
Little Dog: Otto minuti pure qua. La canzone esistenziale di turno. Cessa la tamarraggine, via con i fischiettini di chitarra. Calma solo apparente, l’insensata valanga di merda deve ancora arrivare.
Dragon: Undici minuti di puro niente. Random noise e poi riffoni da chiesa.
Junior Dad: Eccoci. DICIANNOVE MINUTI. Archetti, lamenti, riflessioni sul perché ho speso tutti ‘sti minuti ad ascoltare un disco così inutile. Arpeggini del cazzo. Non voglio sapere manco come va a finire.
Magari prenderò una cantonata ma credo che sia una delle cose più inutili che abbia mai ascoltato. Dire che è un brutto disco non rende neanche l’idea perché lo schifo può persino affascinare. Qui il gusto sublime del brutto assoluto, per così dire, non c’è affatto. Diamo per scontato che io abbia sempre preferito (si fa per dire) un brutto disco ad un disco vuoto o, come in questo caso, imbarazzante, strambo, incomprensibile; resta comunque difficile spiegare l’enorme faccione da punto interrogativo che ho in questo momento. Sembra tutto fatto, ideato e suonato alla cazzo di cane, con zero idee inoltre. Cioè, ragazzi, ma davvero? Lou Reed e i Metallica? Ma dove? Ma perché? Ma quanto è cotto Reed? Ma cosa è successo ai Metallica? Ma chi ha avuto questa idea malsana di farli duettare?
ATTENTI CHE LO DICO: in confronto St Anger era Sgt Pepper. Come soffro. 

Stefano Greco: Un album assurdo negli intenti e assurdo nei risultati. Sia Lou Reed che i Metallica riescono a essere il meglio ed il peggio in reciproca alternanza. Se le varie clip audio avevano preparato al peggio, l’opener invece sorprende in maniera quasi positiva: possiede un qualcosa di quelle pacchianate “grande rock” alla The Wall che secondo me poteva essere l’unico registro possibile per un’operazione del genere, o quantomeno perché un’operazione del genere avesse un minimo di senso. Perché il problema qui è il senza senso, la maggior parte del tempo c’è l’anziano Lou che delira mentre una band di metallari arricchiti fa un po’ di casino. Questa robaccia a sprazzi però può essere interessante, c’è qualcosa di intrigante nel sentire una band che si forza a fare i pestoni mentre un vecchio ci biascica sopra roba a sfondo sessuale; le parti sono ovviamente copiaincollate una sull’altra, questo però crea uno strano effetto straniamento. Dove la curiosità viene meno invece i risultati oscillano tra l’inutile e il pessimo. In generale, se Lou Reed abbozza un minimo il brano, i Metallica (deresponsabilizzati dal dover scrivere una canzone, cosa che non sanno più fare) riescono ad essere quasi convincenti (ovvero azzeccano un riff e lo ripetono all’infinito, gli converrebbe fare così anche nei loro dischi). Dove Reed manca però crolla giù proprio tutto, Frustration è semplicemente ridicola, si percepisce chiaramente che non ci crede nessuno dei partecipanti. Il finale invece ha lo stesso gusto dell’inizio e, per quando estremamente prolisso, ha un che di arioso, una sorta di effetto stadio che mi fa pensare al… ehm… Vasco Rossi anni  ’80 (non sto scherzando). A conti fatti il meglio di Lulu sono le occasionali cafonate e la sua ripetitività, penso di preferirlo alle ultime cose di entrambi i suoi autori. Non è un complimento, più che altro una constatazione.
Considerazioni a latere: i pischelli che su internet smerdano Lou Reed come fosse un cazzaro qualunque dimostrano solo di non capirci veramente nulla e sono la prova che la libertà di parola è un valore davvero sopravvalutato.

Charles: Oddio pensavo peggio. Le anteprime, i presupposti e le aspettative erano veramente pessime. L’infame macchina da guerra del marketing acuiva quella latente sensazione di fastidio che aumentava all’approssimarsi dell’uscita del disco. Adesso non poterlo definire una ciofeca totale un po’ mi dispiace perché mi ero quasi affezionato all’idea di avere già bello e pronto per la classifica di fine anno il titolo della peggiore uscita del 2011. Tutto sommato però mi fa piacere, per l’affezione che nutro nei confronti di questi signori, che lo strambo combo Loutallica, o come volete che si chiami, non sia incappato in una tremenda debacle. Alla fine qui parliamo del puro e semplice piacere conferito dalla giusta successione di sette note che in sparuti momenti, come nel caso dell’opener, posso dire di aver provato. Nonostante ciò quella ineffabile peripatetica di Lulu più di una volta mi ha fatto sperimentare anche una sensazione di profondo imbarazzo nell’assistere allo spettacolo di due nobili e lunghe carriere che venivano ad infrangersi l’una contro l’altra. In certi brani le due realtà, veramente parallele, viaggiano ognuna per conto suo e sembra di essere ne più ne meno che di fronte ad una sovrascrizione di due canzoni distanti nel tempo e nello stile, prese così a buffo. Spero che i Reed/Tallica avessero l’unica intenzione di farsi una sveltina senza impegno, una fugace scopatina senza profilattico. Questa volta gli è andata bene.

Piero Tola: È con animo leggero che mi accingo all’ascolto dell’annunciato “capolavoro” LuLu, disco realizzato in collaborazione tra Lou Reed e i Metallica.
Si apre con Brandenburg Gate. Breve intro acustica, ma non preoccupatevi, non è Battery, e nemmeno Fight Fire With Fire. Non c’è quel rischio… Il cantato è simile ai lamenti del barbone di Piazza San Lucifero a Cagliari quando scopre che i maleducatissimi cani, che quei maleducatissimi padroni portano a spasso nel quartiere, si sono ciulati il pranzo che lui aveva imprudentemente lasciato sulla panchina, e che si era duramente conquistato a suon di elemosine davanti al supermarket. Segue The View. Se la vista è quella di 4 rincoglioniti + 1 che decidono, in un fine settimana qualsiasi, di scrivere quattro canzoncine assieme a mo’ di presa per il culo allora va bene, è tutto chiaro! Inutile dire che il cantato di Lou Reed si adatta alle chitarre dei Metallica come la noce moscata o il basilico su di uno stronzo fumante appena depositato da uno dei suddetti cani (mai che quei bastardi di padroni la raccolgano!).
Continuando nell’ascolto la solfa è sempre la stessa. Mistress Dread inizia con un riff pesante e sembra quasi che facciano sul serio… eppure… ecco il solito cantato da barbone di un Lou Reed in pessima forma. Ti fa venir voglia di spararti al testicolo destro (per far fuori il sinistro conviene aspettare il resto dell’album). E dire che Death Magnetic poteva al limite anche essere accettabile. Pure per me che ho smesso di seguirli da dopo il Black Album perché Load, obbiettivamente, era un’infamia.
Ma aspettate, perché il vero supplizio arriva con Cheat On Me, terrificante semi-ballad di undici minuti undici che si apre con una sezione di archi. Lou Reed si ripete “Why do I cheat on me?” ed è francamente la stessa domanda che tutti ci poniamo… anche se sicuramente la vera presa per il culo è verso gli sprovveduti che compreranno questo disco. Vorrei vederli in faccia, uno ad uno!
Inutile dire che il resto dell’album suona tutto uguale, più o meno.
Little Dog: semplicemente atroce.
Dragon: Lou Reed vaneggia di allucinazioni ma sembra l’omino di South Park dell’episodio Imaginationland che canta la sua canzoncina (per chi non l’ha visto, è vivamente consigliato). Si chiude con quel vero e proprio strumento di tortura che è Junior Dad (19 minuti!!!) e che mi fa implorare pietà e invocare la Convenzione di Ginevra.
Ora basta però! il mio dovere l’ho fatto. Prossimamente: i Megadeth con le sorelle Bandiera.

Matteo FerriTutti noi, sia chi legge queste pagine, sia chi ci scrive, dobbiamo molto ai Metallica. Indipendentemente dai gusti personali, non si può disconoscere l’enorme influenza che la band californiana ha esercitato verso qualsiasi genere e sottogenere metal sviluppatosi dagli anni ottanta ad oggi. Non esiste gruppo, soprattutto in ambito estremo, che non si sia trovato a fare i conti con la produzione discografica dei Four Horsemen che va da Kill’em All al Black Album. Un quintetto di dischi irripetibile che ha ridefinito i limiti territoriali dell’hardcore, del metal e dall’hard rock di matrice settantiana, stravolgendo certe prassi ormai consolidate e portando perfino al successo commerciale generi spesso invisi al grande pubblico. Lo sdoganamento definitivo dell’heavy metal, un trionfo che, in termini di vendite e popolarità, non riuscì e non riuscirà mai completamente neppure ai Motorhead, loro padri putativi neanche troppo nascosti. Mai un cedimento qualitativo, dall’83 fino agli albori dell’ultimo decennio del secolo; lo stesso disco omonimo, seppur rivisto, oggi, in negativo con gli occhi postumi del revisionista, regge il confronto con l’eternità. Poi, nel 1991, i quattro ragazzotti decidono di passare alla cassa, ritirare i propri cospicui risparmi e andarsi a godere il resto dei giorni stravaccati sulle spiagge della Costa Rica a bere mojito e caipirinha dalla mattina alla sera. Sostituiti da quattro peones qualsiasi, la cui unica qualità consiste nell’assomigliare fisicamente agli originali, i Metallica hanno voluto dare continuità alla loro carriera con un solo obiettivo: testare il grado di esasperazione dei propri fan ed osservare fino a che punto questi si sarebbero sorbiti qualsiasi improponibile uscita discografica recante il nome dei propri idoli.
Non so se Lou Reed fosse esattamente un loro acceso sostenitore, fatto sta che, vuoi per l’età non più verdissima, vuoi per uno stile di vita non sempre sanissimo, il settantenne rocker ci casca con tutte le scarpe e nel 2009 si lascia convincere dai quattro sosia a registrare qualcosa con loro.  Addirittura “la miglior cosa fatta in carriera”, come la definisce lui stesso e nonostante ci sia quel certo album del 1967 che in termini di importanza non ha granché da invidiare a qualsiasi altra uscita discografica della storia del rock. Ecco, questo è Lulu : il delirio di un’anziana ex icona del rock accompagnata da quattro figuranti che continuano con certosina diligenza a demolire un nome, un simbolo. Un puzzle incompleto, sciatto ed insulso i cui pezzi non combaciano mai e con l’aggravante di una lunghezza spropositata, in grado di togliere a chiunque la fantasia di arrivare fino in fondo. O magari, più realisticamente, è proprio la fantasia di ascoltare i Metallica che è svanita definitivamente da una ventina d’anni. Con o senza Lou Reed.

Roberto ‘Trainspotting’ Bargone: Si era capito che Lulu dovesse far schifo quando James Hetfield aveva messo le mani avanti dicendo “ai fan potrebbe non piacere, magari è meglio che aspettino il meraviglioso disco ufficiale che stiamo già scrivendo, però ecco magari Lulu potrebbe essere un po’ ostico” ecc. Ovviamente l’operazione puzzava di merda dal momento del suo annuncio, però leggendo queste dichiarazioni -che venivano da chi ha sempre difeso con le unghie e con i denti i fantasmagorici St. Anger e Reload– è arrivata la certezza. Ma non poteva comunque essere altrimenti: i Metallica e Lou Reed sono dei tromboni da cui nessuno può aspettarsi più nulla, talmente enormi in passato da dare una prova fattuale all’adagio bigger they are, harder they fall. Lou Reed in particolare è talmente bollito da non avere una chance neanche alle primarie del PD. E rottamatori all’orizzonte non è che se ne vedano. Potevano giocare sulla cosa e intitolare il progetto Dinosaur Sr. Sul disco in sé non ho niente da dire tranne che è noioso e inutile e che, come già accaduto per St. Anger, non credo che lo ascolterò mai più in vita mia. Questo non succederà per rabbia, o ripicca, o puntiglio: semplicemente mi dimenticherò della sua esistenza, salvo in rari momenti in cui tutto ciò che mi verrà alla mente sarà la noia e il tremendo senso di perdita di tempo che ho provato durante l’ascolto. Parafrasando un altro tizio, Lulu è una scorreggia nello spazio. E non poteva essere altrimenti. Ora vi voglio tutti carichi per l’imminente album di remix di Illud Divinum Insanus.


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