THE MIGHT COULD – st (Small Stone)

Ci sono gruppi che con un semplice riff rubato chissà dove, anche banale, sentito mille volte fino a renderlo elemento essenziale della struttura-tipo della canzone heavy metal, riescono a produrre materiale sonoro comunque innovativo e finanche esaltante.

La collezione di tutti gli umori heavy più classici nelle realtà sludge, stoner, doom e soprattutto southern è ormai nota a tutti: sono decine i gruppi barbuti che ormai affollano il mercato metal, anzi posso quasi sicuramente affermare che ormai da qualche anno alcune etichette come Relapse e Southern Lord (se non altro quelle che possono permettersi di ravanare nell’underground e fare emergere piccole gemme) stiano rilanciando un suono più classico se non palesemente passatista unito però ad una nuova suggestione da fine impero, quasi. La dispersione dei membri degli Alabama Thunderpussy (non a caso una cult-band mai realmente uscita dal sottobosco) può considerarsi fenomeno chiave del rilancio nel mercato più underground di un nuovo classicismo heavy metal, radicale, estremo, fondamentalmente romantico, pervaso da una decompressione del suono e da ronzii autodistruttivi.

Fra tutte le realtà che abbiamo avuto modo di conoscere (Weedeater, come annunciato tempo fa in un’anteprima, Parasytic, o i temibili Hail!Hornet) sicuramente i Might Could sono quella che meglio assume in sé un suono sconquassante ma stabilmente classico, perfettamente rappresentativo di un genere nella sua interezza, restio a concessioni e a puntate nella gratuità dei generi estremi pur non rinunciando ad un ritorno alla sporcizia.

Se pensiamo che qualche anno fa sotto la pessima etichetta di NWOAHM (New Wave Of American Heavy Metal) ci doveva passare tutto il torrente Roadrunner, dai redivivi Machine Head alla varia roba neoclassica dei Lamb of God e Shadows Fall senza dimenticare gruppi sicuramente più influenti e produttivi come i Mastodon (che, piacciano o no, non si può negare che abbiamo DA SOLI reinventato un nuovo modulo heavy metal attingendo anche alle periferie più estreme del genere senza per questo aver generato un suono propriamente estremo), e se a ciò aggiungiamo il reflusso di questo trend provocato dall’avanzamento di una moda ben peggiore come il metalcore, allora trovarsi di fronte gruppi come Might Could et similia fa solo bene. Viene quasi da chiedersi come sia possibile che per anni abbiamo creduto che il concetto di heavy metal potesse sposarsi con una immagine così pulitina e con produzioni multimilionarie che manco Elton John.

Non sono purista, rendetevi conto da soli. Riffoni southern, voce grattata e alcolica, batteria groovy, suono caldo e opportunamente ronzante. È come quando io da ragazzino magari ascoltavo gruppi che gente un po’ più avanti nell’età non tollerava affatto e disprezzava adducendo sempre le stesse motivazioni: “non è musica, è rumore”, “è un fritto misto di generi con la voce urlata di sopra”, “ma che ti senti?”, “i Maiden, quelli sì che erano dei grandi”, “una volta qui era tutta campagna”, “addavenì baffone”…

Detto ciò, un margine minimo entro il quale sfogare la mia voglia di passatismo me lo assicuravo sempre. Pertanto, venendo ai grandi Might Could, mi sento di supportare al massimo la loro proposta.

per rendere l’idea che dal vivo siano fighi

È un disco radicalmente sofferto, figlio degli impensabili disagi e dei disastri biblici che hanno funestato il Sud degli Stati Uniti e forse, a dirla tutta, non bastavano i vari Phil Anselmo, Down ed Eyehategod di circostanza per darci un quadro musicale contestualmente adatto a un panorama da dopobomba. Avevamo bisogno in effetti di un disco definitivo, di un gruppo che fosse il portatore di una nuova coscienza sofferta dell’heavy metal, un gruppo che ci porta a non dare più per scontato le più ovvie dipendenze da droga e alcol di questi reietti del metal e ci fa riflettere su una nuova forma musicale lontana ormai da fighettismi di sorta. Meno cliché e più tradizione.

Erik Larson, erede della sostanza più genuinamente southern degli Alabama Thunderpussy, ora passato dalla batteria dei Parasytic alla chitarra (come faceva negli ATP), produce con il resto del gruppo una serie di composizioni dure come delle legnate ma cariche di quel groove assassino di cui parlavo prima. Lontano dalle ruggini sonore un po’ gratuite di certo sludge, lontano dal pessimismo devastante di altre band coeve e non in cui egli stesso milita (Birds of Prey, per dirne una), il sound della band sembra convogliare al meglio le più integrali suggestioni hard ed heavy (diciamo vicine ai Thin Lizzy) in un tunnel sonoro southern, valga questo sia per i pezzi più tirati che per quelli più bluesy ed acustici. Una batteria pesante ma dall’incedere fiero e possente (merito dell’ex batterista dei Facedowninshit, astro luminosissimo dello sludge più fuso) completa il tutto e aumenta la sostanza heavy.

Un disco vecchio stile, volutamente nostalgico eppure suonato come se questo genere sia sempre stato l’unica vera risorsa per i metallari più problematici, come se vent’anni non fossero mai passati e li avessimo trascorsi solo facendoci crescere barba e capelli.

Un disco visceralmente heavy metal, orgogliosamente underground.

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