Masters of Death: intervista agli Entombed

All’inizio volevo farla con Lars Goran Petrov, che come personaggio è più pittoresco. Entro nel backstage e ha l’aria stremata. E’ appena sceso dal palco, dove aveva sputato anche l’anima, e si è già concesso per un colloquio con un collega, quindi è comprensibile. Non mi reggo in piedi, puoi chiedere ad Alex (Hellid, il chitarrista nonché l’altro unico membro della line-up originaria superstite)? Ci guardiamo con quell’empatia che esiste solo tra i bevitori professionisti e decido di non insistere. Neanch’io sto combinato molto bene, del resto, ma a un concerto degli Entombed è difficile non sbronzarsi. Faccio per tirare fuori la mia copia di Left Hand Path per fargliela autografare e mi rendo conto di essermi portato dietro il cd di Clandestine, l’unico dove lui non canta. Dribblo la figura di merda all’ultimo momento porgendogli da firmare il notes. Lui si accende l’ennesima sigaretta perplesso e finisce di collassare. Io vedo il foglio con la scaletta in terra, non resisto, me lo infilo in tasca senza manco chiedergli il permesso ed esco. In quel momento mi viene in mente quello che mi ripetono sempre i miei amici più stretti: vedi, Ciccio, noi ti facciamo passare tutto perché ti conosciamo e sappiamo che non sei una cattiva persona ma, ecco, spesso ti comporti in modo allucinante senza che te ne renda neanche conto. Trovo Alex, che invece è fresco come una rosa. Somiglia più al batterista di un gruppo HC straight edge che al chitarrista di uno dei gruppi death metal più importanti dell’universo.

Facciamo che ti nomino tutti i vostri dischi e per ciascuno mi dici le prime cose che ti vengono in mente, come dallo psicologo: Left Hand Path…

Eravamo giovanissimi, ci abbiamo buttato le canzoni che stavano nelle demo ma eravamo consci di aver fatto qualcosa di diverso…

Ma non credo immaginaste cosa avrebbe significato quell’album…

Beh, no ma c’era molto entusiasmo. Eravamo solo dei ragazzini incazzati, era il nostro primo disco, era tutto molto spontaneo ma volevamo cercare di essere una band diversa da tutte le altre… Con Clandestine migliorammo tantissimo, lavorammo con più calma. Alcuni pezzi di Left Hand Path risalivano ai tempi dei Nihilist, nel frattempo eravamo cambiati e maturati parecchio, eravamo in grado di scrivere brani più complessi e articolati, c’è più melodia ma anche più oscurità, adoro suonare quel materiale dal vivo.

E’ l’unico disco senza Lars. Perché se ne era andato?

Si era lasciato con la ragazza, stava a pezzi. Era una cosa veramente stupida, a pensarci ora, ma in quel momento non voleva più sapere nulla del gruppo….

Ed è davvero l’unico motivo per il quale aveva lasciato la band? Si era parlato di problemi con Nicke Andersson, il vostro batterista di allora…

Non erano scazzi legati direttamente al la band ma a come si sentiva Lars in quel momento. Ci era rimasto molto male per la fine di quella relazione, andammo avanti un anno senza di lui, in quel momento era troppo preso dai suoi problemi personali per stare dietro agli Entombed e questa cosa andava rispettata. Ci fu un momento nel quale sembrò davvero non dover tornare più e ci mettemmo alla ricerca di un altro cantante, non avevamo altre vie d’uscita.

Con Johnny Dordevic faceste giusto qualche concerto, però, sul disco canta Nicke.

Nicke aveva scritto buona parte dei pezzi quindi sapeva benissimo come avrebbero dovuto essere cantati. Prendemmo Johnny, che conoscevamo perché aveva suonato il basso nei Carnage, in quanto, beh, devi pur presentarti con un cantante sull’album. Facemmo, credo, cinque concerti con lui, nemmeno un tour, la cosa non funzionava, però dovevamo far vedere che avevamo un cantante (ride)! Poi Lars, per fortuna, tornò…

E incideste Wolverine Blues, come venne fuori questo nuovo stile, il death’n’roll?

Eravamo cresciuti ancora tecnicamente e stavamo riascoltando un sacco di metal anni ’80, se non roba ancora più vecchia, e tutte queste influenze vennero fuori. Dopo un lavoro strutturato come Clandestine volevamo suonare brani più diretti, più rock. Eravamo al terzo album ed eravamo circondati da decine di band che suonavano tutte allo stesso modo, alcune come suonavamo noi ai tempi del primo disco. Ciò da una parte ci portò a seguire altri generi, dall’altra a cercare di essere originali. Se ascolti Wolverine Blues ci troverai un po’ di punk, un po’ di Sabbath, un po’ di rock’n’roll. Fu una reazione naturale all’evoluzione della scena, da un certo punto di vista. Abbiamo sempre operato dei cambi di stile drastici, tutti i nostri primi album sono diversissimi tra loro e l’identità della band stava anche in questo. Evolversi sempre, questo doveva essere il nostro percorso.

E con To Ride Shoot Straight And Speak The Truth c’è un altro cambio di marcia notevole, ci avete infilato pure un blues

Eravamo cambiati ulteriormente, cercavamo sempre di fare qualcosa di nuovo e quella volta non ci demmo nessuna regola. Rispetto ai tempi del tape trading il death metal era diventato un genere consolidato. All’improvviso erano venute fuori centinaia di band che suonavano tutte come suonavamo noi ai tempi della primo demo. Lo so che oggi può suonare paradossale ma il death metal tradizionale era diventato un trend e il mercato era saturo. Il livello qualitativo delle band era crollato e la scena era diventata un po’ noiosa… Con i primi dischi avevamo fissato delle regole, toccava a noi sovvertirle.

Ma con Same Difference non faceste un passo un po’ più lungo della gamba?

Beh, sì, è un po’ troppo leggero, ci sono pezzi come Addiction King che mi piacciono ancora, non lo rinnego ma oggi non farei un disco come quello. Non ci stavamo più divertendo tanto, c’era una lotta di potere all’interno della band alla fine della quale Nicke se ne andò. Prendemmo Peter Stjärnvind, registrammo il disco e andammo in tour ma quei brani non funzionavano. Non stavano bene con gli altri in scaletta, alla gente non piacevano, erano troppo melodici, non era la direzione giusta. Anche quella volta provammo a fare qualcosa di diverso ma i fan restarono delusi. Fu anche composto troppo in fretta, roba di due settimane, ci lavorammo poco per via di tutti i casini che stavamo attraversando, avevamo  pure lasciato la East West, con la quale comunque avemmo una buona esperienza… Tutti fattori che influirono sul disco, a prescindere dal cambiamento stilistico.

E arriviamo ad Uprising

Quello di Same Difference fu un periodo piuttosto stressante, quindi ci fermammo per un po’ e cercammo di prendercela comoda. C’era molta pressione su di noi al momento, la Music For Nations, dopo aver investito parecchio denaro su di noi, ci aveva mollato ma riuscimmo a sottoscrivere un nuovo contratto. Ci mettemmo semplicemente a jammare e e quello che ne uscì era roba più veloce, più dura, in parte più rock’n’roll, in parte più vicina alle nostre radici. La copertina riprende quella della prima demo perché Uprising fu una sorta di nuovo inizio. Ancora oggi quell’artwork è una delle nostre icone, è una delle magliette che vendiamo di più! Avevamo ritrovato il nostro marchio di fabbrica, il significato era questo.

Morning Star è piuttosto sottovalutato, ci sono dei pezzi incredibili…

Anche a me piace molto. Iniziammo a scriverlo in tour e avemmo più tempo per lavorarci, un budget più elevato per registrarlo, quindi curammo meglio i dettagli, c’è una produzione più nitida, canzoni più melodiche e ricercate. Quel periodo stavo riascoltando molto gli Slayer, i Maiden, tutta la roba classica, insomma. Anche quello fu in qualche modo un esperimento che non avremmo potuto ripetere subito dopo. Per Inferno quindi adottammo un approccio completamente diverso, più spontaneo; è più basilare e diretto, abbiamo alternato momenti death metal ad altri più sabbathiani. Però non tutti i pezzi funzionano allo stesso modo, la situazione stava iniziando a tornare tesa all’interno della band, non eravamo più tutti concentrati allo stesso modo. Jorgen fu il primo ad andarsene, poi toccò a Uffe e Peter. Sono reazioni alla vita on the road più frequenti di quel che si possa immaginare. Si erano stancati dopo tutti questi anni, Uffe non aveva più voglia di suonare e andare in tour. Ricostruire il gruppo non fu facile ma non avevo la minima intenzione di mollare. Serpent Saints non ha richiesto tanto tempo solo perché dovevamo trovare dei nuovi membri ma anche perché è stato uno snodo estremamente delicato. Dovevamo dimostrare che gli Entombed erano ancora vivi e credibili, non potevamo uscircene con un lavoro che fosse semplicemente decente.

Questo ritorno alle radici death metal è legato al fatto che ora il compositore principale sei tu?

Non proprio, gli Entombed hanno un’identità molto chiara, possono cambiare i componenti, può essere più rock’n’roll o più death metal ma l’Entombed sound è sempre quello. Quando stavamo lavorando alle canzoni che sarebbero finite su Serpent Saints ritornare alle radici ci venne naturale. Con tutto quello che era successo dopo Inferno, con tre membri che se ne erano andati uno dopo l’altro, serviva una forte affermazione d’identità, e l’identità della band sta nel death metal. Ecco, questi sono gli Entombed: è il messaggio che volevamo dare con Serpent Saints. E’ piaciuto, è stato accolto bene dai fan, quindi adesso ci sentiamo più liberi e rilassati riguardo al suo successore. Stiamo coinvolgendo anche i ragazzi nuovi nel songwriting, ci stiamo divertendo…

A che punto siete con la lavorazione del prossimo disco, quindi?

Al momento abbiamo chiuso tre canzoni. Abbiamo una label gestita da noi, la Threeman, e nessuna pressione addosso, quindi ce la prenderemo comoda, non so dirti ancora se per la fine dell’anno sarà concluso, anche perché stiamo suonando parecchio dal vivo, faremo uscire un ep nel frattempo. Se volessi, sarei in grado di scrivere un album in quindici giorni, però verrebbe fuori qualcosa che magari andrebbe bene a una casa discografica ma non di certo a noi. Vogliamo continuare a dare ai fan qualcosa di speciale, che sia il più curato possibile, anche perché i pezzi nuovi sono più complessi rispetto a quelli di Serpent Saints; sarà un lavoro molto diverso, altrettanto intenso ma con una maggiore dose di melodia… Beh, lo ascolterete! Quel che è sicuro è che non ci ripeteremo neanche questa volta. (Ciccio Russo)

I am my own God
Master slave and I will be beyond the grave
No one will take my soul away
I carry my own will and make my day


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