ANTHRAX – Worship Music (Nuclear Blast)

Le premesse erano sconfortanti. Negli otto anni trascorsi dal precedente We’ve Come For You All erano successe troppe puttanate perché la credibilità degli Anthrax non ne uscisse a pezzi. All’epoca aveva iniziato a impazzare il fenomeno delle reunion nostalgiche per fare cassa, in una fase nella quale l’industria discografica stava iniziando a tremare a causa dell’inarrestabile espansione di internet. Nel 2005, dopo un inutile tentativo di convincerli a venire entrambi in tour, la band mette da parte John Bush (con cui aveva appena dato alle stampe un’operazione inspiegabile come The Greater Of Two Evils) e recupera Joey Belladonna. Tornano all’ovile anche Dan Spitz e Frank Bello, che aveva da poco mollato per unirsi agli Helmet (pensate che situazione). La rediviva line-up di Spreading The Disease  se ne va così in giro a suonare i classici degli anni ’80. Quell’anno ebbi occasione di vederli al Metal Camp e – già di pessimo umore per essermi sorbito Max Cavalera proporre Inner Self con i Soulfly – ci rimasi abbastanza di merda. Non tanto perché Belladonna non gliela faceva più ma perché tutto sapeva troppo di costruito e di fasullo per non lasciarmi l’amaro in bocca, nonostante una formazione sotto ogni altro aspetto impeccabile stesse eseguendo dei brani che erano stati la colonna sonora della mia adolescenza. Mi sembrava una cosa senza senso. Gli Anthrax erano stati gli unici tra i Big 4 ad essere riusciti a modernizzare il loro sound in modo credibile, riuscendo dove avevano fallito gli Slayer con Diabolus In Musica. We’ve Come For You All era stato l’album della rinascita; pubblico, critica e case discografiche erano tornati dalla loro parte. Poi Belladonna molla e arriva il fantomatico Dan Nelson, oggetto misterioso con il quale fanno qualche concerto e registrano una prima versione di Worship Music, per poi buttarlo fuori ex abrupto per ragioni mai completamente chiarite. E’ ormai chiaro anche ai sassi che l’allontanamento di Bush era stata la stronzata più grossa da quando l’uomo ha inventato il metallo. I fan lanciano una campagna su internet per chiedere loro di riprendere l’ex Armored Saint (che, ovviamente, ha le palle girate e non ci pensa nemmeno) e, in un vertice di surrealtà, lo stesso Scott Ian  se ne fa testimonial, come se fosse il gruppo di qualcun altro. Alla fine Bush accetta di salire sul palco per qualche festival ma di cantare sul disco non ne vuole sapere. Il povero Belladonna viene quindi richiamato nel ruolo ufficiale di terza scelta. Gli Anthrax rientrano in studio, registrano tutto daccapo col vecchio singer e,  al termine di una telenovela che sembrava interminabile, Worship Music arriva sugli scaffali dei negozi di dischi superstiti, accompagnato dal rassegnato scetticismo dei vecchi fan. Gli stessi, come il sottoscritto, che adesso non riescono più a togliersi dalle orecchie quella che è forse la migliore prova dei newyorchesi dai tempi di Sound Of White Noise.

Ci avevate dati per morti, eh?

Avevo accolto con sufficienza forse eccessiva la prima anticipazione, Fight’em ‘til You Can’t (che adesso è, ahem, uno dei miei pezzi preferiti), ma, alla luce di quanto ci siamo detti, mi pare pure naturale che fossi partito così prevenuto. Poi uscì The Devil You Know e iniziai a essere roso da un dubbio: vuoi vedere che il nuovo Anthrax non è così male?  Sulla base dei due brani che avevo ascoltato mi aspettavo comunque un lavoro che, nella migliore delle ipotesi, riciclasse in modo dignitoso un lontano passato, come era avvenuto con i Megadeth di Endgame. Sbagliato. Gli episodi classicamente thrash non mancano ma Worship Music si rivela un album moderno, coinvolgente e dannatamente heavy, che non tradisce l’evoluzione intrapresa dalla band negli anni ’90. Prendete la spettacolare I’m Alive, che parte con un riff semplice ma irresistibile ed erompe in un refrain che non fa prigionieri. Questi sono gli Anthrax del 2011, non quelli dell’87 ma l’aggressiva opener Earth On Hell, trascinata da quella che resta la sezione ritmica più solida e potente della storia del genere (Dave Lombardo avrà più fantasia ma Charlie Benante, qua autore di una prestazione tellurica, è Charlie Benante),  e la più riflessiva In The End ci fanno cantare, scuotere il capo e fare air guitar come ai tempi di Among The Living. Sarà per la lunga gestazione ma ogni singola canzone, anche gli inevitabili filler, riesce a colpire nel segno, grazie anche al notevole lavoro fatto sulle linee vocali, quasi sempre azzeccate. Certo, ascoltando i brani meno datati, come The Giant, non si può non pensare che con Bush sarebbero venuti ancora meglio. Va però spezzata una lancia a favore di Belladonna, che ha fatto veramente il massimo consentitogli dai suoi mezzi, riuscendo a interpretare in modo convincente un suono che non è più del tutto nelle sue corde. Non un capolavoro ma un disco che stupisce per freschezza e ispirazione e spazza via tutti i pregiudizi con il quale lo avevamo approcciato a colpi di fottutissimo metallo pesante. La vera sorpresa del 2011. (Ciccio Russo)

P.S. Fight’em ‘til You Can’t parla di un’apocalisse zombi e lo stesso Scott Ian, come testimonia la foto qua sopra, apparirà nella seconda serie di The Walking Dead nelle vesti di morto vivente. Insomma, ci stanno pure gli zombi di mezzo, come faccio a parlare male di Worship Music?

 

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